brigantaggio

 

Brigantaggio

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Viaggiatori attaccati dai briganti, dipinto di Bartolomeo Pinelli(1817)

Per brigantaggio si suole definire una forma di banditismo caratterizzata da azioni violente a scopo di rapina ed estorsione, ma che ha avuto, in altre circostanze, risvolti insurrezionalisti a sfondo politico e sociale.

Sebbene il fenomeno abbia origini remote ed abbia interessato periodi storici e territori diversi, nella storiografiaitaliana, con questo termine, ci si riferisce, generalmente, alle bande armate presenti nel Mezzogiorno fra la fine delXVIII secolo e il primo decennio successivo alla proclamazione del Regno d’Italia. In particolare, l’attività brigantesca assunse connotati politici e religiosi con le sollevazioni sanfediste antifrancesi, fu duramente repressa in epocanapoleonicaborbonica e risorgimentale, allorquando, dopo essersi sviluppata ulteriormente, si contrappose alle truppe del neonato Stato italiano.

In questa fase storica, all’interno o al di fuori delle bande, agirono, mossi anche da motivazioni di natura sociale e/o politica, gruppi di braccianti ed ex militari borbonici[1].

 

 

Etimologia e definizioni

Viaggiatori in diligenza durante un assalto di briganti, nella campagna romana, inizio sec XIX (Bartolomeo Pinelli

 

Origini e cause  Il termine brigante è inteso, genericamente, come persona la cui attività è fuorilegge. Sono spesso stati definiti briganti, in senso dispregiativo, combattenti e rivoltosi in determinate situazioni sociali e politiche. L’origine della parola non è ancora chiara e diverse sono le ipotesi sulla sua etimologia.

Il brigantaggio, sin dalla sua genesi, aveva come causa di fondo la miseria. Oltre ad una mera forma di banditismo (soprattutto nel Medioevo), il fenomeno ha spesso assunto i connotati di una vera e propria rivolta popolare. In età moderna, furono coinvolti vari strati sociali, con connessioni e complicità tra signori e banditi, investendo indifferentemente zone urbane e rurali. Il brigantaggio iniziò così a presentare una forza tale da vincere quella dello stesso Stato, incapace ancora di mediare tra i diversi ceti.[2] Francesco Saverio Sipari, che fu tra i primi a considerare anche l’origine sociale del fenomeno, nel 1863scrisse: «il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata»[3] e, anticipando anche analoghe osservazioni diGiustino Fortunato, riteneva che il brigantaggio potesse esaurirsi con la “rottura” dell’isolamento delle regioni meridionali, che era dato dall’assenza di una rete infrastrutturale adeguata, di strade e di ferrovie, e con l’affrancamento dai canoni del TavoliereFrancesco Saverio Nitti considerava il brigantaggio (in particolare nel Meridione) un fenomeno complesso, che poteva assumere i connotati di banditismo comune, di reazione alla fame e alle ingiustizie o di rivolta di natura politica. Egli riteneva che il brigante in gran parte dei casi si rivelava un paladino del popolo, un simbolo di una rivoluzione proletaria:

« Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie. Ciò spiega quello che ad altri e a me e accaduto tante volte di constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai spesso nemmeno i nomi dei fondatori dell’unità italiana, ma ricorda con ammirazione i nomi dell’abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori. »
(Francesco Saverio Nitti[4])

Giustino Fortunato lo considerò «un movimento spontaneo, storicamente rinnovantesi ad ogni agitazione, ad ogni cambiamento politico, perché sostanzialmente di indole primitiva e selvaggia, frutto del secolare abbrutimento di miseria e di ignoranza delle nostre plebi rurali».[5]

Accanto alla miseria, alcuni identificano il brigantaggio come un fenomeno di resistenza, soprattutto in epoca risorgimentale. Il deputato liberale Giuseppe Ferrari disse:«I reazionari delle Due Sicilie si battono sotto un vessillo nazionale, voi potete chiamarli briganti, ma i padri e gli Avoli di questi hanno per ben due volte ristabiliti i Borboni sul trono di Napoli.»[6]. Tuttavia il fenomeno era ben presente anche in altri stati preunitari all’alba dell’unità d’Italia, tra cui lo Stato Pontificio in cui ancor oggi si ricorda la figura de “il Passatore“, il Lombardo-Veneto con Carcini, il Regno di Sardegna con Giuseppe Mayno e Giovanni Tolu.

Storia del Brigantaggio in Italia

Titolo di un bando con i briganti emesso a Siena, dal granduca di Toscana nel 1585

Torquato Tasso catturato da Marco Sciarra

Salvator Rosa (1615-1673) raffigurato mentre ritrae un capo brigante, l’artista così riguadagnò la libertà dai briganti di Monte Gauro (Campi Flegrei)[7]

Impero Romano

Si inizia a parlare di brigantaggio già nell’antica Roma, quando a Taranto intorno al 185 a.C. avvenne un’insurrezione sociale composta perlopiù da pastori, che arrivarono a formare vere e proprie bande.[8] Per risolvere la questione, il pretore Lucio Postumio Tempsano attuò una dura repressione in cui furono condannati circa 7.000 rivoltosi: (alcuni furono giustiziati e altri riuscirono a fuggire).[9] Anche Lucio Cornelio Silla prese provvedimenti contro i briganti (a quel tempo chiamati sicari o latrones)[10] con la promulgazione della Lex Cornelia de sicariis nel 81 a.C., che prevedeva pene capitali come la crocifissione e l’esposizione alle belve (ad bestias).[10]

Giulio Cesare affidò nel 45 a.C. al pretore Gaio Calvisio Sabino il compito di combattere con decisione il brigantaggio che infestava durante il suo impero.[11] Nel 26 a.C.Ottaviano Augusto combatté le rivolte brigantesche in Spagna dove agiva Corocotta, un legittimista della Cantabria,[12] mentre Tiberio deportò 4.000 ebrei in Sardegna per combattere i ribelli, nel timore che queste bande potessero tramutarsi in insorgenze istigate da rivali politici.[12]

Medioevo

In età medievale il brigantaggio si sviluppò in particolar modo nell’Italia centro settentrionale. Si formarono bande composte non solo da comuni banditi ma anche da avversari politici o persone agiate che venivano cacciati dalla loro residenza per subire la confisca dei loro patrimoni.[13] Per sopravvivere queste persone furono costrette a darsi alla macchia, aggredendo mercanti e viaggiatori.

Nella seconda metà del XIV secolo, si registrarono numerose attività di banditismo nel cassinate, ad opera di briganti come Jacopo Papone da Pignataro e Simeone da San Germano, i quali, con azioni vessatorie e spoliazioni, perseguitarono le popolazioni locali. In Toscanaoperò Ghino di Tacco, che non esitava anche a depredare uomini clericali, sebbene personalità come Giovanni Boccaccio non lo considerarono crudele con le sue vittime,[14] tanto da essere definito, da una parte della storiografia, un “brigante gentiluomo”.[15]

Secoli XVI e XVII

In età moderna proliferarono gruppi di fuorilegge composti, particolarmente, da soldati mercenari sbandati, contadini ridotti alla fame e pastori che si diedero alla macchia rubando capi di bestiame ai latifondisti. Alle attività di brigantaggio parteciparono anche preti di campagna, simboli di un malcontento e di un malessere molto diffusi nel clero rurale, che andarono ad ingrossare le file dei banditi[senza fonte].

Stato della Chiesa e Italia Centrale

Nella seconda metà del Cinquecento, operò nell’Italia centrale e meridionale il brigante abruzzese Marco Sciarra, che, riuscendo a raccogliere circa un migliaio di uomini, compì scorrerie e assalti, inimicandosi sia gli spagnoli che lo stato della Chiesa. Nello stesso periodo agiva Alfonso Piccolomini, un nobile appartenente ad un’illustre famiglia senese che scelse la strada del brigantaggio per combattere lo stato Pontificio, raccogliendo intorno a sé persone misere e compiendo atti fuorilegge tra UmbriaMarche e Lazio. Altre bande alla fine del Cinquecento operarono in Italia Centrale capeggiate da Battistello da FermoFrancesco MaroccoGiulio Pezzola eBartolomeo Vallante. Nello stesso periodo in Calabria agiva Marco Berardi noto col nomignolo di Re Marcone.

Di questo periodo le cronache riportano le gesta del capitano Antino Tocco, nativo di San Donato Val di Comino, nell’area di confine fra ilfrosinate e l’Abruzzo e il Regno di Napoli, nel combattere i briganti, “de quali ne fece gran strage[16].

Nel 1557 con una notificazione del commissario di papa Paolo IV si ordina la distruzione del paese di Montefortino vicino a Roma, i suoi abitanti sono dichiarati fuori legge come “briganti”, e sui resti dell’abitato distrutto viene sparso il sale[17]. Decenni dopo emerse nella scena del brigantaggio Cesare Riccardi (noto come “Abate Cesare”), costretto alla vita clandestina dopo aver ucciso un nobile nel 1669 e,nonostante la sua efferatezza, viene ricordato da alcuni come un eroe delle fasce più povere[senza fonte]. Nella lotta contro il brigantaggio si impegno’ con energia papa papa Sisto V: migliaia di briganti vennero portati davanti alla giustizia e molti condannati a morte e giustiziati e vietò di portare indosso armi di media e grossa taglia. nel giro di un breve periodo il pontefice pote’ affermare che il paese fosse inperfecta securitas. La repressione del brigantaggio avvenne con tre manovre: a) piccoli reparti armati che combattevano i briganti nascosti nei boschi, b) pagamento di premi ai delatori che indicavano i covi ove erano nascosti i capi dei malfattori e ai briganti che si erano macchiati di crimini minori era offerta, in alternativa alla pena, la possibilità’ di arruolarsi nelle truppe cattoliche[18].

Alla fine del secolo XVI la campagna romana, particolarmente nelle province di Frosinone e Anagni era sottoposta a numerose azioni da parte di bandi di briganti, contro le quali nel 1595 papa Clemente VIII invio’ alcune compagnie di cavalleria, la stessa azione repressiva venne ordinata dal viceré di Napoli, il conte Olivarez contro i briganti che infestavano il regno di Napoli. Costoro agivano principalmente aggredendo i viandanti e corrieri in agguati nei boschi o nei tratti montuosi delle strade, derubandoli e talvolta togliendo loro la vita, in altri casi catturando persone facoltose per chiederne riscatto, tra queste vennero rapite nel periodo due nobili romani: Giambattista Conti e Alessandro Mantica, il vescovo di Castellaneta e l’arcivescovo di Taranto, liberati dopo il pagamento di un grosso riscatto[19]. La persistenza del brigantaggio, sempre vigoroso nonostante la repressione a cui era sottoposto, era in parte dovuta all’appoggio che trovava ora in questo ora in quello fra i governi del granduca di Firenze, di Roma e di Napoli poiché ogni qualvolta qualche dissidio, molto frequente, nasceva fra il Papa e il Granduca, o il Papa e il Viceré, alle ostilità diplomatiche si accompagnavano silenziosamente ostilità brigantesche favorite da Napoli o da Firenze ai danni di Roma e viceversa. Nel 1594 papa Clemente VIII si lamenta col Nunzio di Napoli per il comportamento del Viceré di Napoli, che “mostrandosi favorire ai banditi di questo Stato [ossia quello papalino] mette S. B. nella necessità di continuare nelle gravi spese che si son fatte fin adesso nella persecuzione loro“.[20].

Vicereame spagnolo di Napoli

Secondo Rovani, durante i due secoli di dominazione spagnola nel napoletano, i banditi dominavano la campagna, ed i nobili se non volevano subire vessazione da questi erano obbligati a proteggerli, sfruttandoli come scherani quando possibile ed attirandoli a Napoli nei momenti politicamente torbidi, come i sussulti filofrancesi del 1647 e 1672. Nel marzo 1645 a Napoli venne promulgato un indulto generale verso tutti i banditi, su cui pendeva una condanna di morte, a condizione che si arruolassero nella milizia, ed un contemporaneo stimo’ che avrebbero potuto arruolarsi in 6000 su di una

popolazione di 2 milioni di abitanti[21]. Nella seconda metà del secolo XVI, in Calabria nel crotonese divenne famoso Re Marcone, soprannome di un eretico brigante che radunò una banda armata in lotta contro il viceré spagnolo ed il potere ecclesiastico cattolico, autoproclamontosi re su una vasta area della Sila, arrivando a porre una taglia di duemila scudi sopra il Marchese spagnolo che lo combatteva, e dieci per ogni testa di spagnuolo ucciso[22].

Secolo XVIII e periodo preunitario

Regno di Napoli

Nei territori del regno borbonico gli episodi di brigantaggio proseguirono anche prima dell’invasione francese nel Regno di Napoli, .

Nel 1760 le squadre di banditi arrivarono ad ordinare che le tasse fossero pagate ad essi, invece che al fisco e perfino il cardinale Innico Caracciolo venne catturato e liberato dopo il pagamento di 180 doppie come riscatto.

Un famoso brigante fu Angelo Duca (noto come Angiolillo) che si distinse con azioni di banditismo tra CampaniaPuglia e soprattutto in Basilicata, catturato fu impiccato nel 1784 aSalerno e quindi, smembrato il suo cadavere, la sua testa venne esposta a Calitri. Le sue gesta furono ricordate positivamente da Pasquale Fortunato[23] (avo del meridionalistaGiustino), che compose un poema su di lui, e da Benedetto Croce, che lo definì «di buona pasta, coraggioso, ingegnoso e di una certa elevatezza d’animo».[24]. Secondo lo storico inglese Hobsbawm, Angiolillo rappresenta «l’esempio forse più puro di banditismo sociale»[25]. La commistione fra nobili locali e banditi rendeva difficile combattere il banditismo, risultando anche costosa, per cui spesso la lotta contro i protettori dei banditi veniva tralasciata.[26]. Il processo ai banditi spesso era disposto ad modum belli, ovvero in forma sommaria e veloce: al reo veniva sollecitata la confessione dei crimini di cui era accusato (in genere appartenenza banda armata in campagna, omicidi, ricatti…), quinditortura (sospensione alla fune e tiri di fune) per verificare quando affermato dall’imputato durante la confessione, quindi l’avvocato difensore aveva un’ora a disposizione per la difesa, a cui seguiva il pronunciamento della sentenza che veniva eseguita immediatamente; le teste degli condannati a morte, mozzate dal corpo, erano portate in mostra per vie di Napoli come ammonimento e conferma dell’avvenuta giustizia[27]. Questa esibizione del cadavere avveniva un po’ in tutta Italia fino al XIX secolo: per esempio, il cadavere diStefano Pelloni, detto il Passatore, ucciso in Romagna nel 1851, fu posto su un carretto e portato di paese in paese a dimostrazione del cessato pericolo.

Età napoleonica
Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi Sanfedisti e Insurrezione calabrese (1806-1809).

Stampa dell’epoca illustrante l’assedio finale delle truppe del generale Church al rifugio di Papa Ciro

Il brigantaggio venne fortemente combattuto nel periodo napoleonico. Con la riconquista del Regno di Napoli, sorsero numerosi combattenti antigiacobini noti come sanfedisti capeggiati dal cardinale Fabrizio Ruffo, che furono appoggiati dai militari napoletani. Tra i rivoltosi si aggregarono numerosi banditi dell’epoca con i loro capi: Pronio, Sciarpa, Fra Diavolo, un pluriomicida che accettò di arruolarsi nell’esercito napoletano in cambio di una commutazione della pena, e Gaetano Mammone, descritto da fonti dell’epoca come una persona estremamente crudele; gran parte di costoro furono nominati colonnello dell’armata regia e insigniti di onorificenze[28].

Durante il decennio francese, vennero attuate dure repressioni contro i briganti, soprattutto in Basilicata e Calabria, le regioni in cui si concentrò maggiormente la reazione. Nel 1806, i generali francesi Andrea Massena e Jean Maximilien Lamarque, saccheggiarono le città lucane di LagonegroViggianoMaratea e Lauria, ove numerosi rivoltosi vennero afforcati e fucilati senza processo.[29] Ilmassacro di Lauria fu probabilmente il più feroce, in cui circa 1.000 persone furono trucidate per ordine di Massena.[30]

Nello stesso anno, nel comune calabrese di Soveria scoppiò una rivolta popolare antifrancese, guidata da Carmine Caligiuri. Un gruppo di soveritani, giunti nel comune limitrofo di Scigliano, uccise 10 soldati francesi. Il giorno seguente gli insorti comandati da Caligiuri tesero un’imboscata a 200 milizie transalpine, di cui una trentina furono assassinate.[31] Il generale Verdier preparò la rappresaglia, giustiziando i ribelli e dando alle fiamme Soveria e altri comuni che appoggiarono l’insurrezione.

Durante il regno di Gioacchino Murat, il brigantaggio antifrancese era ancora attivo e tra le bande più temute del periodo vi era quella di Domenico Rizzo noto come “Taccone”. È nota l’opera repressiva del brigantaggio calabro-lucano da parte del colonnello francese Charles Antoine Manhès, ricordato da Pietro Colletta per i suoi metodi violenti e crudeli e che venne confermato nel suo incarico anche dopo il ritorno borbonico.

Seconda restaurazione borbonica

Bartolomeo Pinelli: la cattura del capo brigante Alessandro Massaroni aMonticelli ad opera di truppe congiunte napoletane, pontificie e austriache (20 giugno 1821)

Brigantaggio preunitario: scena di combattimento tra briganti e milizia in un dipinto dell’epoca.jpg

In seguito alla seconda restaurazione borbonica, il re Ferdinando I attuò una campagna repressiva nei confronti delle bande di briganti, il sovrano borbonico, in particolare nell’aprile 1816, aveva infatti emanato un decreto per lo sterminio dei briganti che infestavano CalabriaMoliseBasilicata e Capitanata, conferendo speciali poteri ai vertici dell’esercito[32]. Il 4 luglio 1816 fu stipulato tra il governo papale e quello borbonico, un accordo di collaborazione sullo sconfinamento reciproco delle truppe tra i territori pontifici e quello del regno borbonico, durante le azioni di repressione del brigantaggio; questo accordo, poi rinnovato e ampliato il 19 luglio 1818, aveva lo scopo di evitare che lo stato confinante divenisse luogo di rifugio delle bande di briganti in fuga[33]. Nella Puglia settentrionale, in Capitanata, il brigantaggio era particolarmente attivo (soprattutto nel distretto di Bovino) «…fino ad assumere connotati di massa. Ad esso si dedicavano alacremente migliaia di individui, padri e figli, che nell’assalto ai viaggiatori, alle diligenze e al procaccio trovavano la fonte primaria del proprio sostentamento»[34]. Nell’ottobre 1817 l generale inglese Richard Church ebbe il comando della sesta divisione militare, comprendente le province di Bari e di Lecce, per combattere il brigantaggio ] fiorente nellePuglie spesso associato a società segrete antiborboniche come nel caso di Papa Cirosacerdote e brigante delle Murge[35]. Gli furono dati ampi poteri, sulla falsariga di quanto era stato fatto nel periodo napoleonico nei confronti di Manhès. La sua azione di Church fu dura e efficace. Commenta Pietro Colletta:

« De’ quali disordini più abbondava la provincia di Lecce, così che vi andò commissario del re coi poteri dell’alter ego il generale Church, nato inglese, passato agli stipendi napoletani per opere non lodevoli, quindi obliate per miglior fama. Il rigore di lui fu grande e giusto: centosessantatré di varie sette morirono per pena; e quindi spavento a’ settari, ardimento agli onesti, animo nei magistrati, resero a quella provincia la quiete pubblica. Ma senza pro per il regno perciocché i germi di libertà rigogliavano, animati dalla Carboneria. »
(Pietro CollettaStoria del Reame di Napoli, Libro VIII, “Regno di Ferdinando IV (1815-1820)”, Capo III, “Errori di governo e loro effetti”, XLVIII)

Nel 1818, trasferito Church in Sicilia, fu inviato in Puglia il generale Guglielmo Pepe per organizzare le milizie provinciali da impiegare contro i briganti[36] di Rocco Chirichigno. Nel 1817 nel Cilento la banda dei Fratelli Capozzoli inizio’ le sue scorribande, che proseguirono fino al 1828, quando costoro si unirono ai Filadelfi durante i Moti del Cilento, la dura repressione ad opera di Del Carretto stronco’ la rivolta, i Capozzoli furono catturati l’anno seguente, giustiziati a Salerno e loro teste mozzate portate in mostra nei paesi circostanti[37].

Il fenomeno del brigantaggio interessò in generale tutta la durata della permanenza della dinastia borbonica sul trono napoletano:«… La crisi economica del 1825-1826 prostrò il mondo delle campagne diede via alla ripresa della guerriglia rurale e a clamorosi episodi di brigantaggio.»[38] Spagnoletti segnala, in età borbonica, un «…ribellismo endemico, spesso sfociato nel brigantaggio di estese zone delle Calabrie e del Principato Citra…»,[39]. Per l’abilita’ dimostrata durante il periodo murattiano, Ferdinando I confermo’ nel suo incarico di lotta al brigantaggio il generale Charles Antoine Manhès, promosso nel 1827 a inspecteur général de gendarmerie.

Ancora nell’ottobre 1859, pochi mesi prima della fine del Regno delle Due Sicilie, il re Francesco II conferì a Emanuele Caracciolo, comandante in seconda della gendarmeria, destinato nelle tre Calabrie, il potere di arrestare e far processare coloro che si erano macchiati del reato di brigantaggio[40].

Il fenomeno del brigantaggio calabrese di questo periodo ispirò nel 1850 a Vincenzo Padula il dramma Antonello capobrigante calabrese.

Stato pontificio

Gendarmi pontifici in perquisizione alla ricerca di briganti nascosti, in una fattoria della campagna romana, inizio secolo XIX

Costumi dei briganti della campagna romana all’inizio del secolo XIX

Brigand costume latium 1820.jpg

Tavola da: Maria Calcott , Maria Graham, Three months passed in the mountains east of Rome, 1820. In testa un alto cappello conico adorno con bande alterne rosse bianche, corpo ricoperto da un ampio mantello, giacchetta velluta blu, gilet ornato con bottoni difiligrana d’argento, camicia di lino, pantaloni aderenti stretti e chiusi sotto il ginocchio, ai piedi le caratteristiche cioce. L’abbigliamento è completato da una cartucciera in cuoio attorno alla vita (detta “padroncina”), un’altra cintura di cuoio che scende dalla spalla che serve da contenitore per coltello, forchetta e cucchiaio, un grosso coltello da caccia posto di traverso sul davanti, un cuore d’argento, contenente una immagine della Madonna e Bambin Gesù, appuntato all’altezza del cuore (un altro simile spesso era appeso al collo). Grossi orecchini d’oro e ed altri oggetti (come anelli, catene, orologi) sempre d’oro arricchivano il costume.[41]

Il continuo imperversare dei briganti negli stati pontifici obbligò il cardinale Fabrizio Spada, segretario di stato di Innocenzo XIII ad emanare il 18 luglio 1696 un apposito editto contro “Grassatori, banditi, facinorosi e malviventi” per obbligare la popolazione alla delazione dei criminali, minacciando galera o pena della vita per chi tacesse e promettendo un premio di 100 scudi d’oro per chi avesse permesso la cattura di un criminale ricercato[42]. .

Nonostante questo editto la situazione non miglioro’ nel tempo e all’inizio del secolo XIX l’area inclusa fra l’AquilaTerracina, il fiume Tevere e il Garigliano era soggetta a frequenti attività da parte dei briganti.

Lo storico Antonio Coppi, così descrive al situazione nello stato pontificio, al tempo della RestaurazioneLe provincie prossime a Roma furono per molti anni tormentate dagli assassini (detti volgarmente briganti), male comune colle vicine napoletane degli Abruzzi, della Terra di Lavoro e della Puglia. Nelle sollevazioni di molte popolazioni contro i Francesi, allorquando essi occupavano queste regioni, non pochi erano corsi alle armi più per amore della rapina che della patria. Alcuni si assuefecero in tal guisa al ladroneccio e vi persistettero anche dopo terminati i popolari tumulti. Formati così diversi nocchj[43] di ladri, che scorrevano armati per le campagne, recavansi ad unirvisi molti di coloro che avevano la stessa perversa inclinazione, o che per commessi delitti divenivano fuggiaschi … Uniti in bande costringevano i contadini ed i pastori a somministrar loro il vitto. Violavano le femmine che potevano raggiungere. Assaltavano i doviziosi, e non contenti di rapir loro quanto portavano, li conducevano sulle montagne e gli imponevano enormi taglie pel riscatto. Se non ricevevano il chiesto denaro li trucidavano fra’ più orribili tormenti[44].

Fra questi il brigante più famoso fu Antonio Gasbarrone detto Gasparrone il cui aiutante Tommaso Transerici fu l’artefice del tentato sequestro di Luciano Bonaparte dalla sua villa tuscolana in Frascati nel 1817. Sei banditi penetrarono nella sua villa e non trovandolo rapirono il suo segretario, per quale chiesero il pagamento di un riscatto entro 24 ore, pena l’uccisione dell’ostaggio; al rapito spiegarono che, sia pur con rincrescimento sarebbe stato ucciso in caso di non pagamento, in quanto i briganti dovevano salvaguardare la loro fama di uomini d’onore nel mantenere la parola data; i banditi nei loro rapimenti non distinguevano fra uomini e donne, tant’ è vero che nello stesso periodo una giovane donna, rapita tra Velletri e Terracina, venne uccisa nelle montagne non essendo stato pagato il suo riscatto[45].

A seguito di queste azioni delittuose il cardinale Ercole Consalvi emise un proclama invitando i banditi ad arrendersi, promettendo loro una debole pena di sei mesi di prigionia a Castel Sant’Angelo, il pagamento loro di una somma di denaro per i giorni di imprigionamento e quindi il loro rilascio. Un certo numero di costoro si consegnarono, furono imprigionati nel castello, dove furono posti in mostra al popolo come animali selvaggi in gabbia e non vennero liberati al termine del periodo promesso[46].

Tuttavia queste misure non servirono a ridurre il brigantaggio particolarmente attivo nella provincia di Campagna e Marittima al confine col Regno di Napoli, e il 18 luglio 1819 il cardinale Consalvi emise un duro editto, con il quale decretava la distruzione del paese di Sonnino, giudicato il principale luogo di rifugio dei briganti nel basso Lazio, attirante anche i malfattori del vicino regno borbonico, e punto di riferimento per le bande dei banditi di Fondi e di Lenola e contemporaneamente imponeva l’allontanamento forzato dei suoi abitanti. Il comune sarebbe stato suddiviso fra quelli circostanti non interessati dal brigantaggio. La distruzione del comune venne sospesa dopo l’abbattimento di venti case e l’ordine di distruzione del paese definitivamente annullato l’anno seguente. [47].

Con lo stesso editto il Consalvi, tentando di coinvolgere i comuni nella lotta contro il brigantaggio, li obbligò a difendere il loro territorio dalle incursioni dei briganti, a rimborsare i derubati del denaro pagato a seguito di estorsioni, contemporaneamente decretò riduzioni temporanee di due anni delle imposte sul sale e sul macinato per quei paesi che avessero collaborato nella cattura o uccisione dei briganti, un incremento delle taglie poste sulla testa dei ricercati e la pena di morte per chi aiutasse i banditi[48], le guardie armate antibrigantaggio, già istituite il 4 maggio 1818, vennero rafforzate e fu concesso il porto d’armi gratuito a tutti i loro componenti. Ad ogni comune venne richiesto di dotarsi di una torre campanaria da utilizzare per segnalare le incursioni banditesche e chiamare a raccolta per la difesa, chiunque non rispondesse all’appello della campana era da considerarsi complice dei malviventi e soggetto a pene pecuniarie e corporali. La resistenza alla forza armata e l’aiuto ai briganti erano punibili fino alla pena di morte, ogni azioni militare completata con successo contro i briganti comportava un automatico avanzamento di grado dell’ufficiale al comando, viceversa la sua degradazione o l’espulsione era prevista in caso di mancanza di coraggio o disonore nel corso del servizio. L’editto annuncia che nessun ulteriore amnistia sarebbe stata promulgata, ma lasciava un mese di tempo per arrendersi ed appellarsi alla clemenza del Pontefice[49].

Nel 1821 venne assalito anche il monastero dei frati camaldolesi dell’eremo di Tuscolo e un collegio per fanciulli alle porte di Terracina.

Perdurando il brigantaggio nella provincia nel 1824 al cardinale Antonio Pallotta venne dato pieno potere, con la nomina a “legato a latere” per combatterlo, il cardinale si insedio’ a Ferentino e il 25 maggio emise un editto al fine di estirpare il brigantaggio e rendere sicure le vie di comunicazione, lungo le quali avvenivano numerose aggressioni contro i viaggiatori, ed alcune di queste avvenute contro viandanti stranieri stavano provocando azioni di protesta da parte dei rappresentanti del corpo diplomatico accreditato a Roma[50]. L’operato di Pallotta si rivelo’ inefficace e dopo due mesi dall’incarico Leone XII, vista anche la necessità di provvedere alla sicurezza nelle strade dei i pellegrini che sarebbero giunti a Roma per la celebrazione dell’anno santo 1825, lo sostituì con monsignor Giovanni Antonio Benvenuti affiancato da Ruvinetti, colonnello dei carabinieri papalini[50]; venne imposto il coprifuoco ai parenti dei briganti e a tutti i sospetti, quest’ultimi inoltre per uscire dal loro comune dovevano essere muniti di un apposito permesso, furono controllati anche i movimenti dei cacciatori e pastori, imposto l’obbligo di denuncia della presenza di briganti e tutti i delitti riferibili al brigantaggio vennero sottoposti al giudizio sommario di un tribunale presieduto dallo stesso Benvenuti[50].

Legazione delle Romagne

Stefano Pelloni, detto il Passatore, fu un noto brigante dello Stato pontificio particolarmente attivo in Romagna nella prima metà del secolo XIX, finendo ucciso in uno scontro con le truppe papaline a Russi nel 1851. Nonostante la sua ferocia, seppe dare di sé un’immagine di combattente contro i soprusi dei ricchi e potenti; tale immagine fu poi divulgata da una certa cultura popolare romagnola che esagerò volutamente nel descrivere Pelloni come un giustiziere difensore di oppressi e miserabili, arrivando a definirlo “Passator cortese” e utilizzando il suo ritratto come marchio dei vini autoctoni[51].

Regno Lombardo Veneto

Il veneto e l’area della bassa mantovana, in particolare le province di PadovaVeneziaRovigo e Mantova si trovarono anch’esse, sottoposte alle scorrerie di briganti, riunitisi in piccole bande composte da disertori dell’esercito austriaco, del precedente esercito del regno Italico e persone in condizioni di indigenza. A seguito dell’accentuarsi di attività’ criminale nei pressi di Este le autorità austriache, istituirono due sezioni venete e lombarde del tribunale statario, che dal giugno 1850 al giugno 1853 svolsero 1400 processi, emettendo «1.144 sentenze di morte di cui 409 eseguite»[52]

Italia postunitaria

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi Brigantaggio postunitario.

Carmine Crocco, uno dei più famosi briganti post-unitari

Figura di “squadrigliere” dell’esercito papalino

Con la nascita del Regno d’Italia, nel 1861 iniziarono a sorgere insurrezioni popolari contro il nuovo governo, che interessarono le ex province del Regno delle Due Sicilie. Le condizioni economiche peggiorate, l’incomprensione della nuova classe dirigente, l’aumento delle tasse e dei prezzi dei beni di prima necessità, l’aggravarsi della questione demaniale dovuta all’opportunismo dei ricchi proprietari terrieri[53] furono le cause principali del brigantaggio post-unitario[54]. Il brigantaggio postunitario fu, secondo alcuni, una delle prime guerre civili dell’Italia contemporanea[55] e fu soffocato con metodi brutali, tanto da scatenare polemiche persino da parte di esponenti liberali[56] e politici di alcuni stati europei.Tra i politici europei che espressero critiche nei confronti dei provvedimenti contro il brigantaggio vi furono lo scozzese McGuire, il francese Gemeau e lo spagnolo Nocedal.[57]

Per alcune correnti di pensiero,[58] viene considerato una sorta di guerra di resistenza; tale ipotesi, comunque, è molto controversa.

I briganti del periodo erano principalmente persone di umile estrazione sociale, ex soldati dell’esercito delle Due Sicilie ed ex garibaldini, tra cui vi erano anche banditi comuni. La loro rivolta fu incoraggiata e sostenuta dal governo borbonico in esilio, dal clero e da movimenti esteri come icarlisti spagnoli. Numerosi furono i briganti del periodo che passarono alla storia. Carmine “Donatello” Crocco, originario di Rionero in Vulture(Basilicata), fu uno dei più famosi briganti di quel periodo. Egli riuscì a radunare sotto il suo comando circa duemila uomini, compiendo scorribande tra BasilicataCampaniaMolise e Puglia,[59] affiancato da luogotenenti come Ninco Nanco e Giuseppe Caruso.

Da menzionare è anche il campano Cosimo Giordano, brigante di Cerreto Sannita, che divenne noto per aver preso parte all’attacco (e al successivo massacro) ai danni di alcuni soldati del regio esercito, accadimento che ebbe come conseguenza una violenta rappresaglia sulle popolazioni civili di Pontelandolfo e Casalduni, ordinata dal generale Enrico Cialdini. Altri noti furono Luigi “Chiavone” Alonzi, che agì tra l’ex Regno borbonico e lo Stato Pontificio, e Michele “Colonnello” Caruso, uno dei più temibili briganti che operarono in Capitanata. Anche le donne parteciparono attivamente alle rivolte postunitarie, come le brigantesse Filomena PennacchioMichelina Di CesareMaria Maddalena De Lellis eMaria Oliverio.

Per acquietare la ribellione meridionale, furono necessari massicci rinforzi militari e promulgazioni di norme speciali (come la legge Pica), dando origine uno scontro che porterà migliaia di morti. La repressione del brigantaggio postunitario fu molto cruenta e fu condotta da militari comeEnrico CialdiniAlfonso La MarmoraPietro FumelRaffaele Cadorna e Ferdinando Pinelli, che destarono polemiche per i metodi impiegati. Alla sconfitta di questo brigantaggio contribui’ anche il cambiamento di atteggiamento dello stato Pontificio, che dal 1864 non forni’ più appoggio ai briganti, arrestando lo stesso Crocco, che cercava rifugio nel suo territorio che non fu più terra franca per i briganti, iniziando a sua volta a combatterli, istituendo un apposito reparto di “squadriglieri”, facendo nel 1867 un accordo di collaborazione reciproca con le autorità italiane sullo sconfinamento delle truppe all’inseguimento di briganti in fuga ed emanando lo stesso anno un editto firmato dal Delegato apostolico Luigi Pericoli, per le province di Frosinone e Chieti, che ricalcava le tematiche della legge Pica[60].

Fine ottocento e inizio novecento

Fenomeni di brigantaggio, seppur di diversa natura da quelli che coinvolsero l’Italia meridionale a seguito dell’annessione al regno sabaudo, si svilupparono o continuarono ad essere presenti in diverse regioni d’Italia tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento.

In Maremma, area a cavallo tra la Toscana e il Lazio le cause erano da ricercare ad un forte malcontento che si era diffuso nella popolazione, nei primi anni dopo l’Unità d’Italia, quando vennero interrotti, per un certo periodo di tempo, i grandi lavori di bonifica idraulica e la riforma fondiaria. Tutto ciò determinò un nascente sentimento nostalgico diffuso per le precedenti politiche dei Lorena che, nelle campagne, fu terreno fertile per la diffusione del fenomeno del brigantaggio.

Tuttavia, sia in Provincia di Grosseto che nel Viterbese, il fenomeno, a differenza del brigantaggio meridionale, non divenne mai organizzato, in quanto ogni brigante era solitario, aveva i propri allievi, cercava di diffondere il suo stile ma non aspirava mai al controllo di un piccolo “esercito”. Le scorrerie e gli atti criminali erano prevalentemente rivolti ai simboli che rappresentavano i grandi proprietari latifondisti e il nuovo Stato italiano; bersagli delle loro azioni, che non erano mai mirate verso la popolazione, erano guardiani, guardiacaccia, grandi tenute padronali e carabinieri.

Tra i briganti della Tuscia viterbese, è famoso il brigante Luigi Rufoloni detto “Rufolone” il quale, originario di Sant’Angelo, piccolo borgo tra Roccalvecce e Graffignano, si era trasferito nella vicina Grotte Santo Stefano ed in particolare, si era insediato presso la macchia di Piantorena, proprietà della famiglia Doria Pamphili, dove era facile incontrare viandanti più o meno facoltosi che si spostavano sulle poche strade che collegavano tra loro i paesi intorno.

Nell’Italia settentrionale Francesco Demichelis, detto il Biondin fu attivo con la sua banda soprattutto nella zona delle risaie del novarese.

Sul finire dell’Ottocento il brigantaggio era ancora vivo in Basilicata (sebbene di gran lunga più fievole rispetto al decennio napoleonico e agli albori dell’unità), con Michele di Gè, la cui autobiografia fu una delle fonti usate da Gaetano Salvemini per intervenire sulla questione meridionale, ed Eustachio Chita, generalmente considerato l’ultimo brigante lucano e i cui resti sono tuttora conservati nel Museo di Cesare Lombroso a Torino. In Calabria vi era Giuseppe Musolino, che acquisì notorietà anche sulla stampa straniera e divenendo protagonista di canzoni popolari calabresi. Musolino si diede al brigantaggio dopo essere stato condannato per omicidio (sebbene si fosse dichiarato innocente), vendicandosi di coloro che lo incastrarono e tradirono con l’aiuto delle popolazioni locali, le quali videro in lui un simbolo contro le ingiustizie di quel tempo.

Lo Stato italiano iniziò una lotta serrata per arginare e debellare questo fenomeno, che si ridusse con l’inizio del Novecento.

Note

  1. ^ Brigantaggio in Treccani.itURL consultato il 06 febbraio 2011.
  2. ^ Giuseppe GalassoUnificazione italiana e tradizione meridionale nel brigantaggio del Sud, in Il brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno d’Italia, Atti del convegno di studi storici (Napoli, 20-21 ottobre 1984), edito dall’«Archivio Storico per le Province Napoletane», terza serie, a. XXI-CI dell’intera collezione (1983), p. 4.
  3. ^ Benedetto CroceStoria del Regno di NapoliAdelphi, Milano 1992, p. 473 riporta per stralci la Lettera ai censuari del Tavoliere pubblicata dallo zio materno, Francesco Saverio Sipari, riproposta integralmente da L. Arnone SipariFrancesco Saverio Sipari e la «Lettera ai censuari del Tavoliere», in R. Colapietra (a cura di), Benedetto Croce ed il brigantaggio meridionale: un difficile rapporto, Colacchi, L’Aquila 2005, pp. 87-102.
  4. ^ Francesco Saverio Nitti, Scritti sulla questione meridionale, Laterza, 1958, p. 44
  5. ^ Giustino Fortunato, Emilio Gentile, Carteggio: 1927-1932, Laterza, 1981, p.14
  6. ^ Teodoro Salzillo, Roma e le menzogne parlamentari, Malta, 1863, p.34.
  7. ^ Salvatore Muzzi, pag 148, in Figli del popolo venuti in onore: operetta storico-morale, 1867
  8. ^ Tarquinio Maiorino, Storia e leggende di briganti e brigantesse, Piemme, 1997, p.16.
  9. ^ Clara Gallini, Protesta e integrazione nella Roma antica, Laterza, 1970, p.41.
  10. ^ a b Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento, Guida, 2000, p.13.
  11. ^ Giuseppe Pennacchia, L’Italia dei briganti, Rendina, 1998, p.17.
  12. ^ a b Giuseppe Pennacchia, L’Italia dei briganti, Rendina, 1998, p.18.
  13. ^ Brigantaggio in www.laciociaria.itURL consultato il 30-11-2010.
  14. ^ Giovanni BoccaccioNovelle di Giovanni Boccaccio, G. Barbèra, 1869, p.167
  15. ^ Giovanni Cherubini, Scritti toscani, Salimbeni, 1991, p.242.
  16. ^ vedi pag. 52 in Giovanni Paolo Mattia Castrucci, Giovanni Domenico carmelitano,Descrittione del ducato d’Aluito nel regno di Napoli, in Campagna Felice. Di Gio: Paolo Matthia Castrucci, d’Aluito dottor filosofo, e medico. Stampata nell’anno 1633. e ristampata nell’ anno 1684. Francesco Corbelletti, 1686 Roma, Napoli
  17. ^ Cesare Cantù, Storia universale di Cesare Cantù , Volume 2; Volume 8, libro decimoquinto, cap. XXVII, nota 6, Unione Tipografico-Editrice, 1888
  18. ^ Picturesque Brigands
  19. ^ cfr pag 16-17 di Antonio Coppi, Discorso sul Brigantaggio dell’Italia media e meridionale dal 1572 al 1825 Tip.Salviucci, Roma, 1867
  20. ^ Pag 455-456, Francisco Protonotari, Nuova antologia, Rivista di scienze, lettere ed arti, Volume 54, Anno XV, Direzione della Nuova Antologia, Roma, 1880
  21. ^ Pag 455, Francisco Protonotari, Nuova antologia, Rivista di scienze, lettere ed arti, Volume 54, Anno XV, Direzione della Nuova Antologia, Roma, 1880
  22. ^ Le Gesta di Re Marco
  23. ^ Benedetto CroceIl brigante Angiolillo, Osanna, 1986, p.33.
  24. ^ Benedetto Croce, Il brigante Angiolillo, Osanna, 1986, p.57.
  25. ^ E.J. HobsbawmI ribelli, Einaudi, Torino 1966, p. 21.
  26. ^ cfr 292-293 in Giuseppe Rovani, Storia delle lettere e delle arti in Italia: giusta le reciproche loro rispondenze ordinata nelle vite e nei ritratti degli uomini illustri dal secolo XIII fino al nostri giorni, Volume 2, Borroni e Scotti, Milano, 1856
  27. ^ Marco Corcione, Modelli processuali nell’antico regime: la giustizia penale nel tribunale di campagna di Nevano, Istituto di Studi Atellani, Frattamaggiore, 2002
  28. ^ vedi pag 131 , F. Gaudioso, 2006
  29. ^ Tommaso PedioStoria della Basilicata raccontata ai ragazzi, Congedo, 1994, p.133.
  30. ^ Tommaso Pedio, Brigantaggio meridionale, Capone, 1987, p.28.
  31. ^ Massimo ViglioneRivolte dimenticate: le insorgenze degli italiani dalle origini al 1815, Città Nuova, 1999, p.277.
  32. ^ Decreto n. 343 del 22 aprile 1816, in «Collezione delle leggi e decreti reali del Regno di Napoli», semestre I, Stamperia reale, Napoli 1816, pp. 256-258.
  33. ^ Vedi pag. 27 e 30 di Antonio Coppi, Discorso sul Brigantaggio dell’Italia media e meridionale dal 1572 al 1825 Tip.Salviucci, Roma, 1867
  34. ^ Cit. da Angelantonio Spagnoletti, op. cit., p. 222
  35. ^ Antonio LucarelliIl brigantaggio politico del Mezzogiorno d’Italia (1815-1818)Laterza, Bari, 1942.
  36. ^ Angelantonio Spagnoletti, op. cit., p. 222
  37. ^ Charles Didier (1831)
  38. ^ Cit. da Angelantonio Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 53.
  39. ^ cit. da Angelantonio Spagnoletti op. cit., p. 57
  40. ^ Decreto n. 424 del 24 ottobre 1859, in «Collezione delle Leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie», semestre II, Stamperia Reale, Napoli 1859, pp. 274-275
  41. ^ cfr pag. 154-155 Maria Calcott , Maria Graham, Three months passed in the mountains east of Rome, 1820
  42. ^ cfr pag 17-18 di Antonio Coppi, Discorso sul Brigantaggio dell’Italia media e meridionale dal 1572 al 1825, Tomo VII, Tip.Salviucci, Roma, 1867
  43. ^ arcaismo: nuclei
  44. ^ Vedi p. 359 et passimin Antonio Coppi, Annali d’Italia dal 1750: 1820-1829,.Tipografia di Giuseppe Giusti, Lucca, 1843
  45. ^ cfr pag 414-415 in William Hendry Stowell, The Eclectic review, Volume 15; Volume 33, 1821
  46. ^ cfr pag 415 in William Hendry Stowell, The Eclectic review, Volume 15; Volume 33, 1821
  47. ^ cfr. p. 423 Paolo Macry, Angelo Massafra, Fra storia e storiografia: scritti in onore di Pasquale Villani, Mulino, 1994
  48. ^ cfr pag 88-89, Archivio storico per la Calabria e la Lucania,, Volume 48,1981
  49. ^ cfr pag. 231-237 Maria Calcott , Maria Graham, Three months passed in the mountains east of Rome, 1820
  50. ^ a b c vedi pag. 31 Gaetano Moron, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, Vol XC, Tipografia L’emiliana, Venezia, 1858
  51. ^ Massimo Dursi, Stefano Pelloni detto il passatore Cronache popolari: Cronache popolari. 1963
  52. ^ vedi Luigi Piva, O soldi o vita: brigantaggio in Bassa Padovana e nel Polesine alla metà dell’Ottocento, Grafica Atestina, 1984 citato in Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella Il rogo delle case e 400 morti che nessuno vuole ricordare, Corriere della sera, 22 settembre 2010
  53. ^ G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo stato italiano, vol. II
  54. ^ Carlo AlianelloLa conquista del Sud, Rusconi, 1972, p.247.
  55. ^ Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento, Mondadori, 1999, p.238.
  56. ^ «Si è inaugurato nel Mezzogiorno d’Italia un sistema di sangue. E il Governo, cominciando da Ricasoli e venendo sino al ministero Rattazzi, ha sempre lasciato esercitare questo sistema» (Nino Bixio). Citato in Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento, Guida Editore, 2000, p. 263.
  57. ^ Gigi Di Fiore, Controstoria dell’Unità d’Italia, p.244-245.
  58. ^ Vedi anche i seguenti articoli on-line, oltre ai testi in bibliografia:
  59. ^ Carmine Crocco, Come divenni brigante, Trabant, 2008, p. 87.
  60. ^ Civilta’ Cattolica, Cronaca contemporanea Cose Italiane, Anno decimo ottavo, Vol X, Serie VI, 1867

Bibliografia

  • Carlo AlianelloLa conquista del Sud: Il Risorgimento nell’Italia Meridionale, Milano, Edilio Rusconi, 1994. ISBN 978-88-18-70033-6.
  • Francesco Barra, Cronache del Brigantaggio Meridionale (1806-1815), Salerno, S.E.M., 1981.
  • Luigi CapuanaLa Sicilia e il brigantaggio, Roma, Stabilimento Tipografico Italiano, 1892.
  • Gaetano CingariBrigantaggio, proprietari e contadini nel Sud (1799-1900), Reggio Calabria, Editori Riuniti, 1976.
  • Leonida Costa, Il rovescio della medaglia: storia inedita del brigante Stefano Pelloni detto il Passatore, Fratelli Lega, 1976.
  • Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento – Legittimisti e Briganti tra i Borbone e i Savoia, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2000. ISBN 978-88-7188-345-8.
  • (FRCharles DidierLes Capozzoli et la police napolitaine, in Revue des Deux Mondes, Tome II, 1831, pp. 58–69
  • Carmine Donatelli Crocco in Mario Proto (a cura di), Come divenni brigante – Autobiografia, Manduria, Lacaita, 1995.
  • Massimo Dursi, Stefano Pelloni detto il passatore: cronache popolari, Giulio Einaudi Editore, 1963.
  • Michele Ferri e Domenico Celestino, Il brigante Chiavone – Storia della guerriglia filoborbonica alla frontiera pontificia (1860-1862), Centro Studi Cominium, 1984.
  • Michele Ferri, Il brigante Chiavone – Avventure, amori e debolezze di un grande guerrigliero nella Ciociaria di Pio IX e Franceschiello, APT – Frosinone, 2001.
  • Timoteo Galanti, Dagli sciaboloni ai piccioni – Il “brigantaggio” politico nella Marca pontificia ascolana dal 1798 al 1865, Sant’Atto di Teramo, Edigrafital, 1990.
  • Francesco Gaudioso, Il banditismo nel Mezzogiorno moderno tra punizione e perdono, Galatina, Congedo Editore, 2001. ISBN 978-88-8086-402-8.
  • Francesco Gaudioso, Brigantaggio, repressione e pentitismo nel Mezzogiorno preunitario, Galatina, Congedo, 2002. ISBN 978-88-8086-425-7.
  • Francesco Gaudioso, Il potere di punire e perdonare. Banditismo e politiche criminali nel Regno di Napoli in età moderna, Galatina, Congedo, 2006. ISBN 978-88-8086-675-6.
  • Antonio Lucarelli, Il brigantaggio politico del Mezzogiorno d’Italia (1815-1818), Milano, Longanesi, 1982.
  • Denis Mack Smith, Storia d’Italia, Roma-Bari, Giuseppe Laterza e figli, 2000. ISBN 88-420-6143-3.
  • Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1983.
  • Marc MonnierNotizie storiche documentate sul brigantaggio nelle provincie napoletane dai tempi di frà Diavolo sino ai giorni nostri, aggiuntovi l’intero giornale di Borjès finora inedito, Firenze, G. Barbera, 1863.
  • Marc Monnier, Il Brigantaggio da Fra’ Diavolo a Crocco, Lecce, Capone.
  • Raffaele Nigro, Giustiziateli sul campo. Letteratura e banditismo da Robin Hood ai giorni nostri, Milano, Rizzoli Editore, 2006. ISBN 978-88-17-00984-3.

Ninco Nanco..« Il governo italiano ci manda contro la forza a perseguitarci; ebbene, facciamogli vedere fin da oggi che noi non abbiamo intenzione di prestargli obbedienza. »

ninco nanco

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Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco Nanco, in dialetto aviglianese Ninghe Nanghe (Avigliano12 aprile 1833 – Frusci13 marzo 1864), è stato un brigante italiano.

Uno dei più devoti luogotenenti di Carmine Crocco, fu protagonista di numerose rappresaglie ai danni di ricchi possidenti e militari sabaudi. Era conosciuto per le sue brillanti doti di guerrigliero,[1] per la sua freddezza e la sua brutalità, attributi che lo resero uno dei briganti più temuti di quel tempo.

Benché noto per la sua efferatezza, viene da alcuni considerato un eroe popolare, parte di quella schiera di popolani che si ribellarono ai soprusi e alle repressioni.[2]

Figlio di Domenico Summa e Anna Coviello, Ninco Nanco (il cui soprannome apparteneva alla famiglia paterna), nacque in un ambiente familiare disagiato e con diversi problemi con la legge. Suo zio materno, il bandito Giuseppe Nicola Coviello, morì bruciato in una capanna di paglia ove si era nascosto per sfuggire alla polizia (dopo la sua morte, venne ricordato con il nomignolo di Cola Arso). Uno zio paterno, di nome Francescantonio, scontò dieci anni di reclusione per aver picchiato un gendarme borbonico e, uscito di galera, scappò in Puglia dopo aver ucciso a pugnalate un uomo per una questione di gioco, lavorando come garzone alle dipendenze di un possidente di Cerignola ma si diede ben presto alla macchia.

Suo padre, benché un onesto contadino, aveva problemi di alcolismo; una zia e una delle sue sorelle erano dedite alla prostituzione. Ancora ragazzino, Giuseppe iniziò a lavorare come domestico presso un notabile, Giuseppe Gagliardi, e più tardi come guardiano di vigne. All’età di 18 anni, sposò una ragazza chiamata Caterina Ferrara, orfana di entrambi i genitori, dalla quale non ebbe figli. Il matrimonio durò 2 anni. In età giovanile, fu spesso protagonista di liti furiose, in una delle quali ricevette un colpo di ascia alla testa che non gli fu fatale. Un giorno, venne pestato e pugnalato ad una gamba da quattro o cinque persone che lo costrinsero a tre mesi di guarigione. Giuseppe, anziché denunciare l’accaduto alla polizia, preferì la vendetta personale. Qualche mese dopo, uccise uno dei suoi aggressori a colpi di ascia.

L’omicidio gli costò dieci anni di carcere a Ponza, ma riuscì ad evadere nell’agosto 1860. Recatosi a Napoli, tentò di arruolarsi nell’esercito di Giuseppe Garibaldi per poter ricevere la grazia ma fu scartato. Tentò la stessa cosa sia presentandosi a Salerno da Nicola Mancusi, comandante della colonna insurrezionale di Avigliano, e sia facendo domanda di arruolamento nella Guardia Nazionale ma entrambi gli esiti furono negativi. Costretto al brigantaggio, Ninco Nanco iniziò a vivere di rapine e furti, rifugiandosi nei boschi del Vulture.

« Il governo italiano ci manda contro la forza a perseguitarci; ebbene, facciamogli vedere fin da oggi che noi non abbiamo intenzione di prestargli obbedienza. »
(Ninco Nanco[3])

Il 7 gennaio 1861, incontrò Carmine Crocco, del quale divenne uno dei più fidati subalterni. Il brigante aviglianese, assieme a Crocco, partecipò a numerosi saccheggi, conquistando prima tutto il Vulture, senza mai riuscire a prendere la sua città natia, Avigliano[4], poi gran parte della Basilicata, spingendosi fino all’avellinese e il foggiano. Si distinse soprattutto nella battaglia di Acinello, comandando la cavalleria dei briganti e dimostrando la sua padronanza in campo bellico. Non esitava ad aggredire le famiglie borghesi, ricorrendo al sequestro, all’omicidio e alla devastazione delle proprietà in caso di mancato sostegno.

Ninco Nanco era conosciuto, a quel tempo, anche per la sua impassibilità nel compiere atti ferini. La sua compagna, Maria Lucia Di Nella (nota come Maria ‘a Pastora), brigantessa di Pisticci, era sempre accanto a lui durante gli assalti e le imboscate. Secondo i racconti popolari della zona, quando Ninco Nanco strappava il cuore dal petto dei bersaglieri catturati, Maria gli porgeva sempre il coltello.[5] Il ricordo di queste azioni cruente era ancora vivo tra gli abitanti della Basilicata nel 1935, quando Carlo Levi vi fuconfinato durante il regime fascista; l’intellettuale incontrò persone che affermavano di esserne state testimoni al tempo e riportò gli aneddoti nella sua opera Cristo si e’ fermato ad Eboli. Tuttavia, Crocco negò torture e scempi da parte del brigante aviglianese ai danni dei militari prigionieri, asserendo che era «terribile solo per la propria defesa».[6]

Nel gennaio 1863, Ninco Nanco e alcuni membri della sua banda uccisero brutalmente il delegato Costantino Pulusella, il capitano Luigi Capoduro di Nizza e alcuni suoi soldati, dopo che Capoduro, sperando di indurre il brigante alla resa, si era avviato con i suoi uomini nel bosco di Lagopesole. I loro cadaveri furono scoperti alcuni giorni dopo: Pulusella venne ritrovato con le mani recise, Capoduro decapitato con la testa messa a distanza su un macigno e con un sasso fra i denti, e sul petto aveva incisa la croce di casa Savoia.[7] Il 12 marzo 1863 nei dintorni di Melfi, si rese protagonista di un feroce massacro ai danni di un gruppo di cavalleggeri di Saluzzo, guidato dal capitano Giacomo Bianchi. Alla carneficina parteciparono anche le bande di Crocco, Caruso, Giovanni “Coppa” Fortunato, Caporal Teodoro, Marciano, Sacchetiello e Malacarne. Solamente due soldati piemontesi sopravvissero, mentre il capitano Bianchi venne ucciso da Coppa con una pugnalata alla nuca e la sua testa fu troncata dal busto. La falcidia avvenne in risposta alla morte di alcuni briganti avvenuta nei pressi di Rapolla, i quali vennero catturati, uccisi e i loro cadaveri bruciati dai regi soldati.[8]

Accanto alla sua ferocia, Ninco Nanco si rese protagonista anche di atti generosi. Aiutava economicamente le sue sorelle, le quali versavano in condizioni misere ed, essendo profondamente religioso, mandava soldi ai preti affinché celebrassero messe in onore della Madonna del Carmine, la cui effigie portava sempre con sé al collo. Durante l’assedio di Salandra, risparmiò un sacerdote che, in passato, aveva aiutato la sua famiglia e gli garantì la sua protezione. Ninco Nanco depositò alcuni oggetti di valore nella cappella delMonte Carmine, che furono sequestrati e venduti per ordine della commissione antibrigantaggio nel 1863; con il ricavato vennero effettuati lavori di ristrutturazione dell’edificio.

Una volta, fermò un mercante di panni di Potenza confiscandogli una manciata di ducati ma, subito dopo, gli restituì la somma. L’antropologo di scuola lombrosiana Quirino Bianchi, autore di una biografia su Ninco Nanco, nonostante lo considerasse un «brigante tanto feroce e di indole perversa», appartenente ad una «famiglia degenerata», sostenne che, avendo pietà della miseria, intimò il capobrigante Giuseppe Pace, detto Castellanese, a smettere di minacciare di morte i poveri, i quali non avevano la possibilità di sostenere le bande.[9]

L’attività di Ninco Nanco iniziò a perdere colpi l’8 febbraio 1864, quando la sua banda fu decimata presso Avigliano e 17 dei suoi uomini furono uccisi. Il 15 febbraio dello stesso anno, venne emessa una taglia di 15.000 lire sul brigante. Circa un mese dopo, il 13 marzo, Ninco Nanco e 2 dei suoi fedeli (uno di questi era suo fratello Francescantonio) furono braccati nei pressi di Lagopesole dalla Guardia Nazionale di Avigliano. Vennero giustiziati subito presso Frusci (frazione di Avigliano) e Ninco Nanco morì per mano del caporale della G.N., Nicola Coviello, con due colpi di cui uno dritto nella gola, per vendicarsi dell’assassinio del cognato compiuto dal brigante aviglianese il 27 giugno 1863.

Tuttavia, altre ipotesi ritengono che il brigante venne ucciso per ordine del comandante della G.N. aviglianese, Don Benedetto Corbo, appartenente ad una delle maggiori famiglie gentilizie della zona, per evitare che venissero alla luce sue presunte connivenze con le bande. Due mesi dopo, lo stesso Corbo fu coinvolto in un’altra vicenda di complicità con i briganti e venne accusato dal generale Baligno, comandante delle truppe di Basilicata, di aver rilasciato senza permesso alcuni briganti appartenenti alla banda Ninco Nanco.

Crocco raccontò nelle sue memorie che, venuto a conoscenza della morte del suo luogotenente, decise di vendicarlo e, trovandosi nelle vicinanze del posto in cui avvenne l’assassinio, preparò la punizione da infliggere ai suoi esecutori ma, vedendo l’arrivo di un reggimento di soldati, dovette abbandonare il piano.[10] La salma di Ninco Nanco fu trasportata, il giorno dopo, ad Avigliano e fu appesa all’Arco della Piazza come monito[11]. Il giorno seguente, il suo corpo fu portato a Potenza, ove venne seppellito. Deceduto il brigante, i suoi uomini confluirono nella banda di Gerardo De Felice detto “Ingiongiolo”, brigante di Oppido Lucano.

  • Dopo la sua morte, vennero composte diverse liriche da parte di autori locali che celebrarono la sua condanna, attribuendogli giudizi sprezzanti.[12] Anche il poeta Michele De Carlo, a quel tempo sindaco di Avigliano, compose un acrostico sul brigante, sebbene con toni più moderati. Le lettere iniziali di ogni verso formano la frase “ECCO NINCO NANCO”.[13]
  • Nei paesi della Basilicata circolò, invece, per molti anni un canto popolare che lo ricordava con affetto, il cui ritornello suona così:[14]
« Ninghe Nanghe, peccé sì muerte?
Pane e vino nan t’è mancate
La ‘nzalate sté all’uerte
Ninghe Nanghe, peccé sì muerte? » 

 

canzoni borboniche

http://youtu.be/hEfyijDnZEo     canzone dei sanfedisti

http://youtu.be/awtTnaMRjCU    briganti se nasce   briganti se more

http://youtu.be/kYhkhon_AMM    vulesse addventa nu brigante

http://youtu.be/kYhkhon_AMM   ninco nanco

http://youtu.be/Pi2nM-0ER28   grande sud

http://youtu.be/ooYnqMukCxk   alla luna

http://youtu.be/rgCwivX3TWM   fuori savoia  mimmo cavallo

http://youtu.be/Gv2W0_TwtgI   fenestrelle parte 1

http://youtu.be/CtIPLHSQ4hc  fenestrelle parte 2

http://youtu.be/H38yAEpmu_Y  briganti documentario

http://youtu.be/Lv5EE4uilcw   fine dei borboni

http://youtu.be/RmNhU6d1FNs   Bronte il massacro

http://youtu.be/RmNhU6d1FNs   il brigantaggio

http://youtu.be/RmNhU6d1FNs   frasi sui briganti

http://youtu.be/YO298v7X82M

http://youtu.be/zLrLRp43vdM

http://youtu.be/ZN7LIXSqZOk

http://youtu.be/I1lSQbiSXks

http://youtu.be/7GWxFEWvaQw

http://youtu.be/H1vqEGsWETE  maradona

http://youtu.be/ZZg-4SK5hts

http://youtu.be/XQcbTAttGlo

http://youtu.be/Ah8xBnjtYWw

http://youtu.be/QtMgJAunt9U

 

 

LA STORIA DI CARMINE CROCCO “brigante “

Li chiamarono… briganti! è un film storico del 1999 diretto da Pasquale Squitieri, incentrato sulle vicende del brigante lucanoCarmine Crocco. Venne subito sospeso nelle sale di proiezione ed è, attualmente, di difficile reperibilità. Ciononostante, il film è divenuto un importante punto di riferimento per i sostenitori del revisionismo risorgimentale, inoltre ha riscosso un grande successo in alcuni convegni e università.

Con la caduta del Regno delle Due Sicilie e la sua annessione al Regno d’Italia, il sud Italia viene logorato da un sanguinario scontro che vede contrapporsi l’esercito italiano fedele al re Vittorio Emanuele II e gruppi di insurrezionalisti, composti perlopiù da braccianti disperati e militari del decaduto regno borbonico, etichettati “briganti” dalla storiografia maggioritaria. Tra i rivoltosi del meridione si distingue Carmine Crocco, un popolano originario di Rionero in Vulture.Tornato al proprio paese, Crocco scopre che il potere ha sempre la stessa faccia: con il nuovo governo sabaudo, la situazione economica e sociale non è affatto cambiata e la classe dominante ha le mani libere per speculare ed opprimere la gente, vedendo un profondo disagio negli occhi dei suoi compaesani. Crocco, già ricercato per aver ucciso un uomo che aveva umiliato sua sorella, ha combattuto con Garibaldi, sperando di ottenere l’amnistia e un posto nella Guardia Nazionale Italiana come promesso dal nuovo governo. Ma la parola non viene mantenuta e Crocco è rinchiuso in carcere ma con l’aiuto della chiesa e di notabili fedeli ai Borbone viene subito liberato.

http://youtu.be/Uw4cO5fTk2E

Carmine Crocco, detto Donatello[2] o Donatelli[3] (Rionero in Vulture5 giugno 1830 – Portoferraio18 giugno 1905), è stato un briganteitaliano, tra i più noti e rappresentativi del periodo risorgimentale. Era il capo indiscusso delle bande del Vulture, sebbene agissero sotto il suo controllo anche alcune dell’Irpinia e della Capitanata.

Nel giro di pochi anni, da umile bracciante divenne comandante di un esercito di duemila uomini, e la consistenza della sua armata fece dellaBasilicata uno dei principali epicentri del brigantaggio post-unitario nel Mezzogiorno continentale.[4] Dapprima militare borbonico, disertò e si diede alla macchia. In seguito, combatté nelle file di Giuseppe Garibaldi, poi per la reazione legittimista borbonica e infine per sé stesso, distinguendosi da altri briganti del periodo per chiara e ordinata tattica bellica e imprevedibili azioni di guerriglia, qualità che vennero esaltate dagli stessi militarisabaudi.[5]

Alto 1,75 m, dotato di un fisico robusto e un’intelligenza non comune,[6] fu uno dei più temuti e ricercati fuorilegge del periodo post-unitario, guadagnandosi appellativi come “Generale dei Briganti”,[7] “Generalissimo”,[8] “Napoleone dei Briganti”,[9] e su di lui pendeva una taglia di 20.000 lire.[10]

Arrestato nel 1864 dalla gendarmeria dello stato pontificio, ove tentato di trovar riparo, venne processato nel 1870 da un tribunale italiano fu condannato a morte e poi all’ergastolo nel carcere di Portoferraio. Durante la detenzione, scrisse le sue memorie, che fecero il giro del regno e divennero oggetto di dibattito per sociologi e linguisti.[11] Benché una parte della storiografia dell’Ottocento e inizi del Novecento lo considerasse principalmente un ladro e un assassino,[12] a partire dalla seconda metà del Novecento iniziò ad essere rivalutato come un eroe popolare, in particolar modo da diversi autori della tesi revisionista,[13] anche se la sua figura rimane ancora oggi controversa.

L’infanzia

La casa natale di Crocco, oggi sede di un’armeria

Nacque a Rionero in Vulture, paese all’epoca parte del Regno delle Due Sicilie. Contrariamente a quanto riportato da numerose fonti bibliografiche, l’atto di nascita custodito presso l’Archivio dello Stato Civile di Rionero attesta che il suo cognome era Crocco.[14] Secondo un manoscritto di Gennaro Fortunato, zio del meridionalista Giustino, il soprannome Donatello (o Donatelli) apparteneva a suo nonno paterno, Donato Crocco.[15]

Suo padre Francesco era pastore presso la nobile famiglia venosina di don Nicola Santangelo mentre sua madre, Maria Gerarda Santomauro,[16]era una massaia che coltivava un piccolo campo a Rionero. Dei suoi primi periodi di vita si è a conoscenza tramite le sue memorie. Secondogenito di cinque figli (tre fratelli: Donato, Antonio e Marco; una sorella: Rosina), visse un’infanzia piuttosto tranquilla, sebbene le condizioni familiari fossero misere e si lavorasse sodo per poter vivere. Crebbe con i racconti di suo zio Martino, ex sergente maggiore dell’artiglieria napoleonica che perse la gamba sinistra a causa di una palla di cannone nell’assedio di Saragozza (durante la Guerra d’indipendenza spagnola) e da cui imparò a leggere e scrivere.

Nel 1836, ancora bambino, durante una mattinata di aprile di quell’anno, vide entrare nella sua abitazione un cane levriero che aggredì unconiglio, lo trascinò fuori di casa e lo dilaniò. Suo fratello Donato uccise il cane con un randello. Per sua sfortuna, l’animale apparteneva ad un signorotto del posto, un tale don Vincenzo, che, trovando la bestia morta vicino alla dimora dei Crocco, picchiò violentemente Donato con un frustino.

La madre, incinta di cinque mesi, si frappose tra il signorotto e suo figlio, subendo dall’aggressore un forte calcio al ventre che la costrinse ad una lunga degenza a letto e, per poter rimanere in vita, fu costretta ad abortire. Pochi giorni dopo il signorotto si presentò dal giudice ed accusò il padre, il quale, venuto a conoscenza dell’accaduto, avrebbe tentato di ucciderlo con un’arma da fuoco. I poliziotti si recarono subito a Venosa e portarono Francesco al carcere di Potenza. Si apprese solo dopo due anni e mezzo che non fu suo padre a compiere il gesto ma un anziano del posto, il quale rivelò, in punto di morte, di esser stato lui l’autore del tentato omicidio.[17] La madre, ancora avvilita per la perdita di un figlio non ancora nato, cadde in profonda depressione per l’incarcerazione del marito e, divenuta pazza, fu rinchiusa in manicomio. Per poter mandare avanti la famiglia, furono venduti i loro miseri possedimenti e i figli furono affidati ad altri parenti.

L’adolescenza

Con il padre in carcere e la madre con seri problemi di salute, il giovane Crocco, assieme al fratello Donato, andò a lavorare come pastore in Puglia; sporadicamente tornava nel suo paese natio ma sua madre, sempre più logorata da problemi psichici, non lo riconobbe più e morì poco tempo dopo nel manicomio ove fu ospitata. Nel 1845, ancora quindicenne, salvò la vita ad un nobile della zona, don Giovanni Aquilecchia di Atella, che volle attraversare imprudentemente le acque dell’Ofanto in piena. Come compenso, Aquilecchia regalò 50 ducati a Crocco, che li sfruttò per poter ritornare nella sua Rionero dopo il suo soggiorno lavorativo in Puglia, e permise anche la scarcerazione di suo padre, tramite suo cognato don Pietro Ginistrelli, un uomo importante ed influente.

Tornato a casa, suo padre era divenuto vecchio e malato; Crocco dovette assumersi il compito di mantenere la famiglia, iniziando a lavorare come contadino presso la masseria di don Biagio Lovaglio a Rionero. Un mattino di maggio 1847, conobbe don Ferdinando, il figlio di don Vincenzo, colui che assalì suo fratello e sua madre. Don Ferdinando apparve diverso dal suo genitore e si mostrò gentile nei suoi confronti, rimanendo sconfortato per il male che il padre aveva arrecato alla sua famiglia.

Offrì al giovane Crocco il posto di fattore in una masseria di sua proprietà, ma lui preferì avere in affitto tre tumuli di terra, con i quali sperava di guadagnare 200 scudi che gli avrebbero permesso di evitare il servizio militare[18] (sotto il Regno delle Due Sicilie la leva era riscattabile dietro pagamento di una somma alle casse statali). Don Ferdinando promise che avrebbe contribuito al raggiungimento della cifra necessaria al momento della chiamata di leva, ma l’accordo si vanificò, poiché il signorotto unitosi ai rivoluzionari napoletani venne trucidato da alcuni soldati svizzeri a Napoli il 15 maggio 1848.[19]

Così Crocco si ritrovò arruolato nell’esercito di Ferdinando II, nel primo reggimento d’artiglieria, prima nella guarnigione di Palermo e poi di Gaeta con il grado di caporale. L’esperienza militare durò circa quattro anni e Crocco disertò dopo aver ucciso un commilitone in un duello rusticano; le circostanze non sono chiare, si pensa a causa di una rivalità in amore[20] o perché accusato ingiustamente dalla vittima di furto.[21] Tuttavia, il servizio di leva fu una delle esperienze che formeranno la sua organizzazione e strategia bellica.[22]

La fuga

Il presunto delitto d’onore di Crocco, illustrazione dei primi del Novecento

Con la sua partenza, fu la sorella Rosina, non ancora diciottenne, ad avere il compito di mantenere la famiglia. Rosina, rimasta in casa a lavorare per tante ore al giorno, ricevette continue proposte da un uomo invaghito di lei, un certo don Peppino Carli. La ragazza, completamente disinteressata, gli mostrò sempre indifferenza e lui, non sopportando i suoi continui rifiuti, andò in giro a diffamarla; infine costui avrebbe incaricato una mezzana di approcciarla. Rosina scioccata sfregiò con il rasoio il viso della mezzana, e quindi, fuggì dai parenti per invocare protezione e aiuto.[23] Crocco seppe dell’accaduto e, furibondo, volle riparare l’offesa subita dalla sorella.

Conoscendo le abitudini di don Peppino, che generalmente frequentava un circolo per giocare d’azzardo nelle ore serali, attese il ritorno del signorotto davanti la sua abitazione. Al suo arrivo, gli domandò il perché del suo gesto nei confronti della sorella, dandogli del “mascalzone”. Don Peppino non tollerò l’aggettivo attribuitogli e gli diede un colpo di frustino in viso. Colto dall’ira, Crocco estrasse un coltello e lo uccise.[24] Compiuto l’assassinio, fu costretto alla fuga e ad abbandonare il servizio militare, trovando rifugio nel bosco diForenza, posto in cui era facile trovare altre persone con guai giudiziari.

Sospettando che il brigante, con il racconto del delitto d’onore, avesse voluto accampare una giustificazione morale della sua vita di fuorilegge, il capitano Eugenio Massa, che collaborò alla realizzazione dell’autobiografia di Crocco, condusse accurate indagini sul posto quarant’anni dopo. Con l’ausilio del medico Basilide Del Zio, Massa riuscì ad accertare che a Rionero, negli anni cinquanta dell’Ottocento, non aveva avuto luogo nessun delitto nelle circostanze descritte da Crocco.[25] Nella biografia sul brigante, Basilide Del Zio confermò la versione di Massa, sostenendo che tale vicenda del delitto d’onore fosse priva di fondamento.[26] Ciononostante, la storia del delitto d’onore è stata presa sul serio, secondo lo storico Ettore Cinnella, poiché per molto tempo si è attinto alle ristampe successive dell’autobiografia di Crocco, senza le note e l’apparato critico a cura di Massa che accompagnavano la prima edizione. In questo periodo Crocco iniziò ad avere i primi contatti con altri fuorilegge, costituendo una banda armata che visse di rapine e furti. Fu arrestato e rinchiuso nel bagno penale di Brindisi il 13 ottobre 1855, ricevendo una condanna di 19 anni di carcere. Il 13 dicembre1859 riuscì ad evadere, nascondendosi tra i boschi di Monticchio e Lagopesole.

Moti liberali

La battaglia del Volturno, conflitto a cui Crocco partecipò con i garibaldini

Scappato dal carcere, Crocco venne a sapere tramite notabili della zona che Camillo Boldoni, membro del comitato insurrezionale lucano, avrebbe fatto concedere la grazia ai soldati disertori che avessero appoggiato la campagna militare di Giuseppe Garibaldicontro i Borbone (Spedizione dei Mille), per poter conseguire l’unità d’Italia. Crocco, nella speranza di un’amnistia per i suoi reati, aderì ai moti liberali del 1860 e, unendosi agli insorti lucani e all’esercito garibaldino (17 agosto 1860)[27] seguì Garibaldi fino al suo ingresso a Napoli.

Combatté come sottufficiale a Santa Maria Capua Vetere[27] e, successivamente, nella celebre battaglia del Volturno.[28] Secondo le testimonianze dei rivoluzionari del tempo, Crocco prestò i suoi servigi con zelo e attaccamento al moto nazionale.[29] Cinto dal tricolore[27], tornò a casa vittorioso e, fiducioso di poter ottenere quanto gli era stato promesso, si recò a Potenza dal governatoreGiacinto Albini, il quale assicurò che l’amnistia sarebbe stata acconsentita. In realtà, le cose andarono in direzione opposta: Crocco non ricevette la grazia e fu emesso il suo mandato d’arresto.[17]

La sua condanna fu aggravata a causa del sequestro di Michele Anastasia, capitano della Guardia Nazionale di Ripacandida, compiuto con l’aiuto di Vincenzo Mastronardi e avvenuto prima dei moti risorgimentali di agosto. Crocco tentò la fuga ma venne sorpreso a Cerignola e nuovamente incarcerato.

Preparativi della reazione

Nel frattempo, il popolo lucano, afflitto dalla miseria e dagli aumenti dei prezzi sui beni di prima necessità, iniziò a rivoltarsi contro l’appena costituito Stato italiano, poiché con il cambiamento politico non ottenne alcun beneficio,[30] mentre la classe borghese (in passato fedele ai Borbone) conservò intatti i propri privilegi dopo aver appoggiato, opportunisticamente, la causa risorgimentale.[31] Contribuirono ad aumentare ulteriormente il malcontento del basso popolo la mancata redistribuzione delle terre (che rimasero in possesso dei baroni), l’aggravio delle tasse, il servizio militare obbligatorio, la fucilazione dei renitenti alla leva (a volte presunti) senza possibilità di giustificazione[32] e un regime poliziesco che puniva persino il reato d’opinione. In numerosi centri della provincia si scatenarono ribellioni contadine per sollecitare la quotizzazione demaniale ma furono prontamente represse e qualificate dal Governo Prodittatoriale Lucano come «reazionarie e antiliberali».[33]

I membri dei comitati filoborbonici, intenzionati a ripristinare il vecchio regime sfruttando la rabbia dei ceti popolari, cercarono una persona in grado di guidare la rivolta. Crocco, detenuto nel carcere di Cerignola e prima di esser tradotto nel bagno penale di Brindisi, venne fatto evadere dai Fortunato, influente famiglia realista, nonché parenti delmeridionalista Giustino.[34] Irritato per le promesse non mantenute dai liberali, ebbe l’opportunità di riscattarsi, di diventare il capo dell’insurrezione legittimista contro lo Stato Italiano appena unificato, ricevendo un solido supporto di uomini, soldi e armi. Crocco, benché non avesse mai nutrito simpatie per la corona borbonica e disposto a tutto pur di redimere il proprio passato,[35] decise di passare alla causa di Francesco II, ultimo re delle Due Sicilie che subentrò al padre Ferdinando II dopo la sua morte, dalla quale si sentiva «sicuro di ricavarne guadagno e gloria».[36]

Intorno a Crocco si avvicinarono numerosi ribelli, perlopiù persone spinte dalla fame e dalle ingiustizie sociali, nella speranza che un mutamento governativo potesse contribuire a migliorare la loro esistenza.[37] Con il sostegno di parte del clero locale[38] e di potenti famiglie legate ai reali borbonici come i Fortunato e gli Aquilecchia di Melfi, Crocco assunse il comando di circa duemila uomini, che per la maggior parte erano persone nullatenenti e disilluse dal nuovo governo italiano, oltre che da ex militari del regno borbonico, reduci del disciolto esercito meridionale e banditi comuni. Al comando di una possente armata, tra cui spiccavano temuti luogotenenti come Ninco NancoGiuseppe CarusoCaporal Teodoro e Giovanni “Coppa” Fortunato, Crocco partì all’attacco sotto il vessillo dei Borbone, sconvolgendo diverse zone del meridione e costituendo un serio pericolo per il giovane stato unitario.

Al servizio di Francesco II

Crocco, nel periodo di Pasqua del 1861, occupò la zona del Vulture nel giro di dieci giorni. In ogni territorio conquistato, dichiarava decaduta l’autorità sabauda, istituiva una giunta provvisoria, ordinava che fossero esposti nuovamente gli stemmi e i fregi di Francesco II e faceva intonare il Te Deum. Secondo le cronache dell’epoca, gli assedi dell’armata di Crocco furono sanguinari e disumani: persone appartenenti, prevalentemente, alla classe borghese e liberale venivano ricattate, rapite o uccise da Crocco in persona o dai suoi uomini e le loro proprietà venivano depredate. Nella maggior parte dei casi, però, egli e le sue bande venivano accolti positivamente e supportati dal ceto popolare.[39] Lo stesso Del Zio ammise che il brigante «aveva proseliti in ogni comune, era il terrore dei commercianti» e dei «grandi proprietari, o coloni di vaste ed estese masserie, ai quali un semplice biglietto di Crocco per aver denari, vitto ed armi, era più che sufficiente a gettarli nel terrore».[40]

Il 7 aprile occupò Lagopesole (rendendo il castello una roccaforte) e il giorno successivo Ripacandida, dove sconfisse la guarnigione locale della Guardia Nazionale Italiana e lo stesso Anastasia, che aveva denunciato Crocco per il suo rapimento, venne trucidato.[41] Il 10 aprile i briganti entrarono a Venosa e la saccheggiarono, mettendo in fuga i militi della Guardia Nazionale e la cittadinanza borghese che si rifugiarono nel castello. Il popolo, accorso entusiasta incontro ai briganti, indicò loro le case dei galantuomini. Durante l’occupazione di Venosa, venne assassinato Francesco Saverio Nitti, medico ex carbonaro, nonno dell’omonimo statista, e la sua abitazione fu razziata.[42] Fu poi la volta diLavello, in cui Crocco fece istituire un tribunale che giudicò 27 liberali e le casse comunali furono svuotate di 7.000 ducati, 6.500 dei quali furono lasciati al popolo.[43] Dopo Lavello toccò a Melfi (15 aprile), dove Crocco fu accolto trionfalmente (anche se alcuni ricordano mestamente l’entrata dei suoi uomini nella città melfitana per via della macabra uccisione e mutilazione del parroco Pasquale Ruggiero).[44]

Con l’arrivo di rinforzi piemontesi da PotenzaBari e Foggia, Crocco fu costretto ad abbandonare Melfi e, con i suoi fedeli, si spostò verso l’avellinese, occupando, qualche giorno dopo, comuni come MonteverdeAquilonia (a quel tempo chiamata “Carbonara”), CalitriConza e Sant’Angelo dei Lombardi.[45][46] Il 16 aprile tentò di prendere Rionero, il suo paese natale, ma venne respinto dalla resistenza degli abitanti locali del partito democratico, guidati dalle famiglie Brienza, Grieco e D’Andrea che riunirono contro le forze di Crocco i piccoli proprietari e i professionisti, e subito dopo, con una petizione in cui raccolsero circa 300 firme, denunciarono alle autorità come manutengoli[47], i componenti della famiglia Fortunato, fra cui Giustino, capo del governo Borbonico dopo la repressione dei moti del 1848.[48] Dopo un’altra sconfitta nei pressi di San Fele, il 10 agosto riottenne una vittoria a Ruvo del Monte con il supporto popolare, trucidando una decina di notabili, e abbandonò il paese incalzato dai regolari, comandati dal maggiore Guardi.

Arrivate le truppe unitarie, la comunità di Ruvo fu punita con una feroce rappresaglia per aver collaborato con gli invasori, effettuando il rastrellamento e l’immediata fucilazione di numerosi abitanti. Guardi ordinò al sindaco di fornire il suo contingente ma, di fronte ad un diniego motivato poiché le casse furono trafugate dai briganti, fu arrestato assieme ad altri rappresentanti della cittadinanza, per attentato alla sicurezza interna dello Stato e complicità in brigantaggio.[49] Crocco si acquartierò a Toppacivita, nelle vicinanze di Calitri, e, il 14 agosto, fu attaccato dai regi soldati, i quali subirono una netta sconfitta. Tuttavia, forse dubbioso sulle sorti della propria spedizione e visto il mancato arrivo di rinforzi più volte promesso dai comitati filoborbonici,[50] decise improvvisamente di sciogliere le sue schiere, intenzionato a trattare con il nuovo governo. Il barone piemontese Giulio De Rolland, nominato nuovo governatore della Basilicata al posto del dimissionario Giacomo Racioppi, era disposto a trattare con lui ed informò il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re a Napoli, riguardo alle trattative di resa del brigante. Cialdini incaricò di dirgli però che «saranno ricompensati quelli che renderanno dei servigi, ma non accorda grazia piena a nessuno: è questo un attributo del sovrano».[51]

L’incontro con Borjes

Josè Borjes

Crocco tornò sui suoi passi quando il governo borbonico in esilio sembrò aver finalmente inviato sostegni alla sua torma. Il 22 ottobre 1861, per ordine del generale borbonico Tommaso Clary, arrivò il generale catalano Josè Borjes, veterano delle guerre carliste. Borjes venne a conoscenza, tramite Clary, delle vittoriose gesta di Crocco e si incontrò con lui nel bosco di Lagopesole. Il generale, reduce dal fallimentare tentativo di animare la reazione in Calabria, tentò di riuscirci in terra lucana, sperando di trovare nel capomassa un valido aiuto per compiere l’impresa.

Borjes voleva trasformare la sua banda in un esercito regolare, quindi adottando disciplina e precise tattiche militari; inoltre programmò di assoggettare i centri minori, dar loro nuovi ordinamenti di governo e arruolare nuove reclute per poter conquistare Potenza, ancora un solido presidio sabaudo. Crocco era diffidente: trovò il generale solamente con 17 uomini e non nutrì alcuna fiducia nei suoi confronti sin dall’inizio, temendo che Borjes volesse sottrargli il comando dei propri territori.[52] Inoltre era contrario alla strategia del militare catalano, ritenendo inutili gli attacchi ai centri abitati e considerava come unica alternativa possibile una guerriglia per colpire i galantuomini che avevano aderito al nuovo regime.[53] Il capo dei briganti, vedendo in Borjes un esperto di guerra, accettò l’alleanza ma, nonostante tutto, i loro rapporti non saranno mai armoniosi.

Nel frattempo giunse da Potenza il francese Augustin De Langlais,[54] che si presentò come agente legittimista al servizio dei Borbone. De Langlais, personaggio ambiguo di cui Borjes ebbe a dire nel suo diario «si spaccia come generale e agisce come un imbecille»,[55] partecipò a numerose scorrerie accanto al brigante e, per certi aspetti, fu il coordinatore principale dei movimenti delle bande.

La seconda campagna

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi Spedizione di Borjes e Battaglia di Acinello.

Augustin De Langlais

Partito da Lagopesole, Crocco ripeté le imprese della precedente spedizione, mettendo a ferro e fuoco interi villaggi, in cui si registrarono episodi di violenza inaudita che lasciarono inorridito lo stesso Borjes,[56] benché il capobrigante potesse quasi sempre contare sul supporto popolare. Raggiunse le sponde del Basento, ove riuscì a reclutare nuovi combattenti, e occupò Trivigno, mettendo subito in fuga le guardie nazionali.Giacomo Racioppi, ex governatore della Basilicata, riguardo all’invasione disse: «la plebe si aggiunge ai predoni, il paese va in fiamme e rapine; la colta cittadinanza o fugge, o si nasconde, o muore con le armi alla mano».[57] Caddero sotto l’occupazione di Crocco altri centri come Calciano,GaragusoSalandraCraco e Aliano.

Il 10 novembre, ottenne una netta vittoria su un gruppo di bersaglieri e guardie nazionali durante la battaglia di Acinello, uno dei più importanti conflitti del brigantaggio postunitario.[58] Conquistati altri centri come GrassanoGuardia PerticaraSan Chirico Raparo e Vaglio (che fu messa al sacco a causa dell’opposizione alle bande),[59] Crocco giunse nelle vicinanze di Potenza il 16 novembre ma, per divergenze diplomatiche con Borjes, la spedizione verso il capoluogo non venne effettuata e l’armata dei briganti riversò verso Pietragalla. Il 19 novembre si tentò l’entrata inAvigliano (paese natale di Ninco Nanco) ma i contadini e gli artigiani si riunirono ai borghesi, respingendo i briganti.[60]

Il 22 novembre, l’orda brigantesca occupò Bella e conquistò centri come BalvanoRicigliano e Castelgrande ma venne sconfitta a Pescopagano, lasciando sul terreno 150 briganti tra morti e feriti.[61] Esaurite le risorse per sostenere altre battaglie, Crocco ordinò ai suoi uomini la ritirata verso i boschi di Monticchio. Appena tornato, decise di rompere i rapporti con il generale Borjes, perché era insicuro di vincere e non credeva più alla promessa del governo borbonico di un contingente maggiore.[62] Il generale catalano, sconcertato dal suo cambio di rotta, si recò a Roma con i suoi uomini per fare rapporto al re e nella speranza di organizzare una nuova colonna di volontari pronti per ritentare l’impresa.

Durante il suo tragitto, Borjes fu catturato da alcuni regi soldati capeggiati dal maggiore Enrico Franchini e venne fucilato assieme ai suoi fedeli a Tagliacozzo. Crocco rimase con De Langlais, il quale sparì, inspiegabilmente, dalla scena poco dopo. Con la fuoriuscita dei legittimisti stranieri, Crocco iniziò ad incontrare le sue prime difficoltà, poiché alcuni suoi uomini iniziarono ad agire contro i suoi ordini.[63] Tutti i paesi insorti e occupati furono riconquistati, ristabilendo l’autorità sabauda, briganti e civili accusati (o sospettati) di manutengolismo furono arrestati o fucilati con esecuzioni sommarie senza processo.[64]

Da legittimista a bandito

Terminata la collaborazione con Borjes, il brigante rionerese ritornò ad azioni di mero banditismo, assalendo viandanti e compiendo depredazioni, ricatti, sequestri e omicidi di personalità gentilizie delle zone, al fine di estorcere migliaia di ducati.[63] Il brigante iniziò a privilegiare la guerriglia allo scontro in campo aperto, suddividendo la sua armata in piccole bande distribuite nel territorio, che si sarebbero riunite in caso di scontri con un contingente più grande. La tattica rese i drappelli più agili e imprendibili, favoriti anche dal territorio boschivo e impervio, causando molti problemi ai reparti del Regio Esercito.[65] Benché i tentativi di restaurazione fossero ormai vani, i realisti borbonici non abbandonarono Crocco e, vedendo nelle insurrezioni repubblicane e nella spedizione di Garibaldi verso lo Stato Pontificio una circostanza favorevole che avrebbe turbato l’attenzione del governo savoiardo, continuarono a sostenerlo cercando di ravvivare l’insorgenza.[66]

Le sue scorrerie si protrassero fino alle zone di AvellinoCampobassoFoggiaBariLecceGinosaCastellaneta e si ritrovò a collaborare in diverse occasioni con altri capobriganti, come Angelantonio Masini e il pugliese Sergente Romano. Quest’ultimo propose al suo collega lucano di unire le proprie forze, muoversi su Brindisi, occupare Terra d’Otranto e i comuni del barese innalzando la bandiera borbonica ma Crocco, a causa dell’esito negativo dei precedenti piani legittimisti, lasciò cadere il progetto.[67] Dinnanzi all’apparente invincibilità degli uomini di Crocco, intervennero in aiuto della guardia nazionale e dell’esercito anche i militi della Legione ungherese, che diedero filo da torcere al capobrigante e le sue bande.[68] Se da una parte Crocco perdeva uomini, dall’altra ne recuperò altrettanti a causa di una quantità irreversibile di renitenti che, per salvarsi dalla fucilazione, furono costretti alla macchia.

Gli scontri tra briganti e truppe italiane non accennarono a placarsi. Uno degli episodi più brutali avvenne nel marzo 1863, quando le sue bande (tra cui quelle di Ninco Nanco,CarusoCaporal Teodoro, Coppa, Sacchetiello e Malacarne), tesero un’imboscata a un distaccamento di 25 cavalleggeri di Saluzzo, guidato dal capitano Giacomo Bianchi, reduce della guerra di Crimea, picchiando e uccidendo circa venti di loro, incluso il capitano. Lo sterminio avvenne in risposta alla fucilazione di alcuni briganti nei pressi diRapolla, perpetrato dagli stessi cavalleggeri. Nell’autunno dello stesso anno, Crocco, spinto dalla crescente pressione della coalizione regia e dal graduale abbandono del sostegno popolare, ebbe un breve ritorno al legittimismo. Diffuse un invito alla rivolta, cercando di sfruttare il sentimento religioso del volgo, in cui sembrò offrire anche un’alleanza alle forze rivoluzionarie di sinistra antimonarchiche:[69]

« Che si aspetta? Non si commuove ancora il cielo, non freme ancora la terra, non straripa il mare al cospetto delle infamie commesse ogni giorno dall’iniquo usurpatore piemontese? Fuori dunque i traditori, fuori i pezzenti, viva il bel regno di Napoli col suo religiosissimo sovrano, viva il vicario di Cristo Pio IX e vivano pure i nostri ardenti repubblicani fratelli[70][71][72] »

Declino

Taglia sulla cattura di Crocco, Ninco Nanco eAngelantonio Masini

Nel frattempo, il generale Fontana, i capitani Borgognini e Corona organizzarono negoziati con i briganti. L’8 settembre Crocco, Caruso, Coppa eNinco Nanco si presentarono di propria volontà e furono ospitati in una casa di campagna nelle vicinanze di Rionero. Durante un banchetto, Crocco assicurò di condurre tutti i suoi 250 uomini alla resa, chiedendo per essi un salvacondotto e se ne andò verso Lagopesole, secondo le cronache locali, gridando «Viva Vittorio Emanuele» e sventolando un tricolore.[73] In realtà il capobrigante, probabilmente scettico davanti alle promesse del regio governo o, secondo alcune voci, convinto dai notabili realisti a diffidare per evitare una possibile fucilazione,[74] non fece più ritorno e l’accordo saltò.[75]

Improvvisamente, Caruso, fino a quel momento una delle sue migliori sentinelle, entrò in attrito con lui e si allontanò dalla banda. Intanto, il generale Franzini, che si occupava di combattere il brigantaggio nel Melfese, fu sostituito, per motivi di salute, dal generale Emilio Pallavicini, proveniente dal comando della zona militare di Spinazzola (Pallavicini, militare di lunga carriera, era già noto per aver bloccato Garibaldi sull’Aspromonte mentre tentava di raggiungere lo Stato Pontificio). Caruso si arrese al generale Fontana il 14 settembre 1863 a Rionero, preparando la sua ritorsione nei confronti di Crocco e dei suoi ex alleati. Anche i notabili che avevano promosso la reazione, intuendo la fine inesorabile della stessa, iniziarono a prendere le distanze da Crocco e, palesando egoisticamente sentimenti liberali, sollecitarono un’efficace azione nella lotta contro il brigantaggio.[76]

Affidato a Pallavicini, Caruso svelò alle autorità i piani e i nascondigli della sua organizzazione, guidando le truppe regie per il circondario di Melfi e ottenne dai suoi vecchi manutengoli informazioni precise e sicure che erano impossibili da avere alle truppe regolari. D’altra parte Pallavicini fece arrestare tutti i parenti dei briganti, ordinò la stretta sorveglianza delle carceri e delle case sospette[77] e fece travestire gruppi di soldati da briganti; grazie a queste misure aumentò il numero di scontri a fuoco favorevoli al regio esercito e le masnade si indebolirono progressivamente.[78] I briganti catturati, anziché essere giudicati da un tribunale militare, venivano freddati sul posto.[79]

Arresto

Con il rinnegamento di Caruso, Crocco fu costretto a tenersi nascosto a causa dei massicci rinforzi alla Guardia Nazionale inviati dal governo regio e del forte controllo di polizia a cui erano sottoposti i “manutengoli”. Ormai rimasto solo con pochi seguaci e accerchiato dai cavalleggeri di Monferrato e di Lucca, fu costretto a dividere la sua banda in piccoli gruppi posti in luoghi strategici, come i boschi di Venosa e Ripacandida; trascorse i quattro mesi invernali senza dare notizie di sé, ritornando alla ribalta in aprile, alla guida di un piccolo gruppo di 15 uomini[80]. Anche se messo alle strette, dimostrò di non essere facile preda, tant’è che lo stesso Pallavicini riconoscerà che lui e Ninco Nanco, malgrado fossero «primi tra’ capi che ebbero più triste rinomanza», possedevano comunque «vere qualità militari» ed erano «abilissimi nella guerriglia».[81]

Le truppe di Pallavicini lo sorpresero sull’Ofanto e decimarono il suo drappello il 25 luglio 1864. Riuscito a scappare, fu costantemente tallonato dai regi bersaglieri guidati da Caruso, i quali però non riuscirono mai a prenderlo. Davanti ad una sconfitta ormai inevitabile, Crocco, auspicando un aiuto da parte del clero, attraversò monti e foreste, cercando sempre di evitare i centri abitati, e giunse, con alcuni dei suoi uomini, nello Stato Pontificio il 24 agosto 1864 per incontrare a Roma Pio IX, il quale aveva sostenuto la causa legittimista. In realtà, il brigante fu catturato il giorno seguente dalla gendarmeria del papa a Veroli, per poi essere incarcerato a Roma. Tutto questo suscitò in lui un’amara delusione nei confronti del pontefice anche perché, oltre all’arresto, gli venne confiscata, a sua detta, una cospicua somma di denaro che aveva portato con sé nello Stato Papale.[82]

Il 25 aprile 1867, Crocco fu tradotto a Civitavecchia e, imbarcato su un vapore delle Messaggerie Imperiali francesi, venne destinato a Marsiglia, per poi essere esiliato ad Algeri. Giunto nei pressi di Genova, il governo italiano intercettò l’imbarcazione e si ritenne autorizzato a farlo arrestare ma Napoleone III ne reclamò il rilascio, sostenendo che il regno italiano non aveva alcun diritto d’arresto su una nave di un altro Stato.[83] Dopo un breve periodo di detenzione a Parigi, Crocco fu rispedito nello Stato Pontificio a Paliano e, divenuto prigioniero dello Stato italiano con la presa di Roma (1870), venne portato ad Avellino ed infine a Potenza. La sua fama era tale che, durante i suoi passaggi da una prigione all’altra, numerose persone accorrevano per poterlo vedere di persona.[84]

Processo

Durante il processo tenuto presso la Gran Corte Criminale di Potenza, al brigante furono imputati 67 omicidi, 7 tentati omicidi, 4 attentati all’ordine pubblico, 5 ribellioni, 20 estorsioni, 15 incendi di case e di biche con un danno economico di oltre 1.200.000 lire.[85] Dopo 3 mesi di dibattimento, la Corte d’assise di Potenza lo condannò a morte l’11 settembre 1872, con l’accusa di numerosi reati quali omicidio volontario, formazione di banda armata, grassazione, sequestro di persona e ribellione contro la forza pubblica.

Ma la pena, con decreto reale del 13 settembre 1874, fu commutata nei lavori forzati a vita in circostanze oscure, poiché altri briganti con capi d’imputazione simili furono giustiziati. Secondo Del Zio, le ragioni furono probabilmente a sfondo politico-diplomatico, perché il Governo italiano avrebbe dovuto subire «il volere francese».[86]

Francesco Guarini, avvocato difensore di Crocco, chiedendo il rinvio della causa affermò: «Se Crocco fu mandato a Marsiglia, per essere poi tradotto in Algeri, ciò avvenne per transazioni diplomatiche fra il Governo pontificio ed il Governo francese, coll’acquiescenza del Governo italiano».[83] Crocco, durante il suo interrogatorio, sostenne che le autorità del papa non poterono lasciarlo libero, poiché il Governo italiano le avrebbe accusate davanti alle potenze straniere «di favoritismo e di protezione verso i briganti».[85] Conclusa la sentenza, il brigante venne prima assegnato al bagno penale di Santo Stefano e poi al carcere di Portoferraio, in provincia di Livorno, ove passò il resto dei suoi giorni.

Ultimi periodi

Crocco (il primo a destra) nel carcere di Portoferraio, ritratto diTelemaco Signorini

Durante la sua vita da carcerato, Crocco mantenne sempre un atteggiamento calmo e disciplinato verso tutti, sebbene non mancò di farsi rispettare dagli altri detenuti con l’autorità del suo nome e del suo passato. Non si unì mai a proteste e baruffe degli altri carcerati, preferendo rimanere sempre in disparte e prestò soccorso ai sofferenti.[87] Venne visitato nel carcere di Santo Stefano da Pasquale Penta, criminologo di scuola lombrosiana, che vi rimase per 10 mesi.

Nonostante il direttore del presidio avesse redatto una nota in cui veniva definito «gravissimo, pericolosissimo» e da tenere «severamente e continuamente in osservazione», Penta non riscontrò in lui i caratteri del “delinquente nato”; era «capace in verità di grandi reati, ma anche di generosità, di sentimenti nobili, di belle azioni» e la causa della sua carriera criminale è forse «il germe della pazzia materna».[88]Nella sua attività di capomassa, secondo Penta, fu autore di «mille delitti: saccheggi di città, incendi, omicidi, su quelli specialmente che lo avevano tradito, ricatti, estorsioni» ma, allo stesso tempo, cercò di tenere a bada «briganti e sotto-capibanda bestiali, ferini, e trattò a tu per tu con i generali italiani»; «imponeva che fossero rispettate le donne oneste, maritate o zitelle; che non si facesse male oltre il necessario e non si eccedesse nella misura della vendetta per compiere la quale era inesorabile: a molte giovani che non avevano come maritarsi regalò denaro; a dei poveri contadini comprò armenti ed utensili di lavoro».[21]

Anche Vincenzo Nitti, figlio del medico massacrato a Venosa, militare della Guardia Nazionale e testimone oculare dei fatti, lo considerò «un ladrone per indole» ma anche un «brigante non comune per sveltezza di mente, astuzia, ardire, ed anche per una certa generosità brigantesca».[89] Nel 1902, quando Crocco era trasferito nel bagno penale di Portoferraio, giunse una comitiva di studenti di medicina legale dell’Università di Siena, accompagnata dal professore Salvatore Ottolenghi, con l’obiettivo di intervistare i condannati a scopo didattico. Ottolenghi ebbe un colloquio con Crocco, considerato dal professore il «vero rappresentante del brigantaggio nei suoi tempi più celebri», oltre a definirlo il «Napoleone dei briganti».[90]

L’intervista verrà pubblicata l’anno successivo da uno studente di Ottolenghi, Romolo Ribolla, nell’opera Voci dall’ergastolo. Durante la conversazione l’ex brigante, ormai vecchio, con problemi fisici e dichiaratosi pentito del suo passato,[91] raccontò sinteticamente la sua vita, lasciandosi andare anche al pianto; elogiò GaribaldiVittorio Emanuele II per avergli concesso la grazia (anche se, negli scritti autobiografici, attribuì il ringraziamento non per la propria vita ma per aver preservato i suoi familiari «dall’obbrobrio di sentirsi dire: “Siete nipoti dell’impiccato”»),[92] dichiarando inoltre di esser rimasto scosso dall’assassinio del re successore Umberto I, ucciso dall’anarchico Gaetano Bresci.[93] Il suo desiderio era morire nel paese natio, che purtroppo non si avverò mai. Crocco si spense nel carcere di Portoferraio il 18 giugno 1905, all’età di 75 anni.

Vita personale .Crocco fu’ legato inizialmente ad una donna chiamata Olimpia. In seguito, quando divenne comandante di un proprio esercito di rivoluzionari, ebbe una relazione con Maria Giovanna Tito, conosciuta quando la brigantessa si aggregò alla sua banda.[94] Da allora questa lo seguì fedelmente, mettendo fine alla relazione di Crocco con Olimpia. La Tito poi fu abbandonata dal capobrigante, che si era invaghito della vivandiera della banda di Agostino Sacchitiello, luogotenente di Crocco di Sant’Agata di Puglia. Nonostante la fine della loro relazione, Maria Giovanna continuò ad operare sotto le dipendenze di Crocco, fino al 1864, quando fu arrestata.[94] Il brigante ebbe anche una fugace relazione conFilomena Pennacchio, che divenne poi compagna del suo subalterno Giuseppe Schiavone.

Le memorie

Crocco nel carcere di Santo Stefano, schizzo diPasquale Penta

Durante la detenzione, il brigante iniziò la stesura della sua autobiografia, realizzata in due manoscritti (in realtà furono tre, ma uno di essi, in possesso del professor Penta, venne da questi smarrito).[87] Il più noto è quello elaborato con l’ausilio di Eugenio Massa, un capitano del regio esercito, interessato a farsi raccontare gli avvenimenti di cui era stato protagonista.

Massa, che riconobbe le sue brillanti capacità di leader («se avesse vissuto nell’età di mezzo, sarebbe forse salito a condizione di condottiero di ventura»)[95] pubblicò il racconto di Crocco, allegando l’interrogatorio di Caruso, in un libro denominato Gli ultimi briganti della Basilicata: Carmine Donatelli Crocco e Giuseppe Caruso (1903). L’opera fu ripubblicata più volte nel dopoguerra da diversi autori quali Tommaso Pedio (Manduria, Lacaita, 1963), Mario Proto (Manduria, Lacaita, 1994) e Valentino Romano (Bari, Adda, 1997). L’altra versione autobiografica, che non subì alcuna revisione linguistica, venne pubblicata dall’antropologo Francesco Cascella nell’opera Il brigantaggio: ricerche sociologiche ed antropologiche (1907), con la prefazione di Cesare Lombroso.

Come già accennato, le memorie di Crocco trascritte con il capitano Massa sono tuttora oggetto di dibattito e sono stati avanzati dubbi sull’autenticità dei suoi scritti. Secondo Tommaso Pedio, alcuni episodi raccontati non rispondono al vero o non vengono fedelmente ricostruiti,[96]Benedetto Croce ritenne che le memorie fossero «bugiarde».[97]

Del Zio considerò il brigante quale autore del documento, data «la narrativa, la conoscenza esatta di persone, luoghi, paesi, campagne, e le iniziali di molti nominati»,[98] ma definì poco veritiera la storia raccontata; per costui, infatti, Crocco «mentisce in molti punti, esagera in altri, occulta quasi sempre e costantemente le sue brutalità, le sue lordure».[98] Indro Montanelli dichiarò che si tratta di un componimento «viziato dall’enfasi e dalle reticenze, ma non privo di spunti descrittivamente efficaci sulla vita dei briganti, e abbastanza sincero».[99]

Luogotenenti di Crocco

Ninco Nanco

Caporal Teodoro

Giuseppe “Sparviero” Schiavone

Vito “Totaro” di Gianni

Tra i luogotenenti di Crocco sono da menzionare:

  • Giuseppe Nicola Summa detto “Ninco Nanco“, di Avigliano – si diede alla macchia dopo l’evasione dal carcere, condannato per aver ucciso uno dei suoi aggressori che, durante una rissa, lo costrinsero ad una lunga degenza. Si aggregò a Crocco, divenendone uno dei più brillanti luogotenenti, famoso per la sua brutalità anche se compì alcuni gesti generosi. Venne ucciso durante un’imboscata dalle guardie nazionali.
  • Giuseppe Caruso detto “Zi Beppe”, di Atella – guardiano campestre che si diede al brigantaggio nel 1861, dopo aver ucciso una Guardia Nazionale. Tradì il suo capo costituendosi alle autorità e le sue informazioni furono determinanti per reprimere le bande di Crocco. Venne ricompensato con la nomina di guardia forestale di Monticchio.
  • Vincenzo Mastronardi detto “Staccone”, di Ferrandina – evaso dal carcere per reati comuni nel 1860, come Crocco aderì ai moti unitari e, non ricevuta la grazia, si unì al capobrigante, divenendo uno dei più importanti subalterni. Catturato, venne ucciso misteriosamente nel 1861.
  • Teodoro Gioseffi detto “Caporal Teodoro“, di Barile – anch’egli guardiano campestre. Arrestato, fu condannato ai lavori forzati a vita.
  • Giuseppe Schiavone detto “Sparviero”, di Sant’Agata di Puglia – ex sergente borbonico unitosi ai briganti di Crocco per non prestare giuramento all’esercito italiano. Fu tra i briganti meno efferati e fu condannato a morte tramite fucilazione.
  • Agostino Sacchitiello, di Bisaccia – agì in Irpinia alle dipendenze di Crocco. Fu arrestato nel 1864.
  • Giovanni Fortunato detto “Coppa”, di San Fele – fu probabilmente il più famigerato e spietato dei suoi luogotenenti e lo stesso Crocco lo definì il «più feroce tra tutti».[100] Figlio illegittimo di un barone e di una popolana, venne cresciuto dalla famiglia di Crocco, il quale era molto legato a lui, per poi essere adottato da un’altra famiglia. Arruolatosi nell’esercito borbonico e ritornato a San Fele dopo la caduta del regno delle Due Sicilie, venne insultato e picchiato da alcuni compaesani. Furioso per gli oltraggi ricevuti, si unì alla banda del suo amico. Divenne un brigante talmente crudele da essere temuto persino dai suoi stessi commilitoni e di non provare pietà nemmeno verso le persone a lui più vicine, tant’è che uccise suo fratello perché aveva saccheggiato una masseria senza il suo consenso.[101] Fortunato fu assassinato nel giugno 1863, in circostanze poco chiare. Secondo alcune testimonianze venne ucciso da Donato “Tortora” Fortuna, per riparare una violenza carnale nei confronti della sua donna Emanuela, dopo aver ricevuto il permesso da Ninco Nanco, il quale rimase commosso dall’accaduto.[102] Tuttavia, in un’intervista del 1887, Francesco “Tinna” Fasanella si ritenne l’autore dell’omicidio, poiché considerò Fortunato un brigante che «voleva ogni giorno aver qualcheduno da uccidere».[103]
  • Pasquale Cavalcante, di Corleto Perticara – ex soldato borbonico che, tornato nel suo paese natale, venne umiliato. Una guardia nazionale, durante un diverbio con la madre, la picchiò e le ruppe una costola. Cavalcante vendicò sua madre uccidendo l’aggressore. Unendosi all’armata di Crocco, fu uno dei comandanti della cavalleria. Catturato dopo la soffiata di un tale Gennaro Aldinio, per ottenere la carica di ricevitore del fondaco delle privative diLagonegro, venne condannato a morte a Potenza il 1º agosto 1863. Poco prima di spirare disse:
« Merito la morte perché sono stato assai crudele contro parecchi che caddero tra le mani. Ma merito anche pietà e perdono perché contro mia indole mi hanno spinto al delitto. Ero sergente di Francesco II, e ritornato a casa come sbandato, mi si tolse il bonetto, mi si lacerò l’uniforme, mi si sputò sul viso, e poi non mi si diede più un momento di pace, perché facendomi soffrire sempre ingiurie e maltrattamenti, si cercò pure di disonorarmi una sorella; laonde accecato dalla rabbia e dalla vergogna non vidi altra via di vendetta per me che quella dei boschi e così per colpa di pochi divenni feroce e crudele contro tutti: ma io sarei vissuto onesto, se mi avessero lasciato in pace. Ora muoio rassegnato e Dio vi liberi dalla mia sventura.[104] »
  • Francesco Fasanella detto “Tinna”, di San Fele – militare del disciolto esercito borbonico, tornò al proprio paese e venne schernito per aver servito i Borbone, soprattutto da Felice Priora, un tenente della guardia nazionale. Un giorno Priora gli diede uno schiaffo, Tinna lo spinse per terra e fuggì nei boschi divenendo fuorilegge. La moglie, sospettata di collusioni con lui, venne fucilata per ordine di Priora. Era incinta di sette mesi.[105] Tinna, furibondo, ammazzò il tenente e si unì all’armata di Crocco. Si costituì, volontariamente, nel 1863 e fu condannato a vent’anni di reclusione. Fu rilasciato nel 1884 e tornò nel suo paese natio.
  • Donato Antonio Fortuna detto “Tortora”, di Ripacandida – mandriano di professione, ex militare borbonico datosi alla macchia dopo aver rifiutato di arruolarsi nell’esercito dei Savoia. Ereditò, su nomina di Crocco, la banda del brigante Di Biase dopo la sua morte. Costituitosi a Rionero dal delegato di Pubblica Sicurezza, fu condannato nel 1864 ai lavori forzati a vita.
  • Vito di Gianni detto “Totaro”, di San Fele – ex gendarme borbonico, fu tra gli ultimi luogotenenti ad essere consegnati alla giustizia, decretando la fine dell’egemonia delle bande di Crocco. Fu arrestato nel febbraio 1865, convinto alla resa da Giuseppe Lioy, un sacerdote di Venosa, al quale Totaro rispose in maniera secca: «fummo calpestati: noi ci vendicammo: ecco tutto».[106]

 

Briganti un film dove si evince chi e’ il “Brigante” .

iniziamo da Oggi con  la carrellata di film sui Briganti..

 

quello di oggi e’ un Bellissimo film di Carlo Lizzani del 1969,

il Titolo e’ L’Amante di Gramigna

dove si racconta la storia di un contadino Siciliano che ha combattuto  con Garibaldi .Al suo ritorno a casa si trova a lottare  con il Barone del posto per un pezzo di terra sottratto con artefizi e in barba all’analfabetismo con la complicita’ del notaio ,Gramigna scopre che suo padre e’ stato raggirato con un’Artefizio letterale e perde tutto cio’ che ha,chiede allora  l’annullamento dell’atto con la restituzione del denaro dovuto alla vendita ma non e’ piu’ possibile….. …da un Uomo di Valore si passa ad essere un Brigante solo per aver richiesto GIUSTIZIA ..IL FILM E’ VECCHIO ma vale la pena di vederlo .

questa storia e’ simile a MOLTE storie le quali hanno portato alla Macchia molti Valorosi Uomini ,e’ simile alla storia di Carmine Crocco che si differenzia sul contendere ,qui vi e’ una casa ed un pezzo di terra nel caso di Crocco vi e’ l’Onorabilita’ e giustizia per la Sorella .

buona Visione

http://youtu.be/I1WfE620QDQ

Com’era l’Italia vista da Goethe ….

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……..Ma a Napoli ‐ dove Goethe torna anche dopo il viaggio in Sicilia ‐ le sue
osservazioni si fanno più precise. Nel suo secondo soggiorno si sofferma ad
osservare il popolo cittadino, anche per sfatare i consueti giudizi negativi. La
capitale partenopea è una città gioiosa, dove si vuole soltanto vivere, dove la
gente va compresa nelle proprie abitudini, “bisogna misurarla con la bilancia
del  bottegaio  e  non  con  quella  dell’orafo”.  La  folla  è  uno  spettacolo  di
ineguagliata bellezza, un “turbine di vita” che descrive nei minimi particolari,
rendendo perfettamente l’idea del formicolio, del tumulto. Una descrizione
che rimanda ad altre folle cittadine, quelle di Londra e Parigi nell’ottocento e
novecento, evocate con altrettanta meticolosità e meraviglia da scrittori come
Mercier, Balzac, Poe, Baudelaire e cento altri. Con una differenza. La folla di
Napoli  non  ha  l’aspetto  diabolico  che tormenterà  quegli  autori.  Non  è  la
massa di zombi metropolitani, individui chiusi e solitari, perduti nel ritmo
ossessivo dei tempi moderni, ma è folla viva, comunicante, variopinta. Un
atteggiamento però Goethe  ha  in  comune  con Poe  e Baudelaire,  e  cioè  la
voluttà di isolarsi nella folla: “In mezzo a tanta gente e a tanto movimento mi
sento, per la prima volta, veramente calmo e isolato. Più schiamazzano per la
strada, più divengo tranquillo”……….

I rifiuti sono utili per il circolo produttivo e sono da considerarsi una ricchezza per un paese. Lo avevano capito i Napoletani di allora e lo aveva capito persino lo scrittore tedescoGoethe, grande amante dell’Italia e della Sicilia, che così scriveva aNapoli il 27 Maggio 1787:

Moltissimi sono coloro – parte di mezza età, parte ancora ragazzi e per lo più vestiti poveramente – che trovano lavoro trasportando le immondizie fuori città a dorso d’animo. Tutta la campagna che circonda Napoli è un solo giardino d’ortaggi, ed è un godimento vedere le quantità incredibili di legumi che affluiscono nei giorni di mercato, e come gli uomini si dian da fare a riportare subito nei campi l’eccedenza respinta dai cuochi, accelerando in tal modo il circolo produttivo.

Lo spettacoloso consumo di verdura fa si che gran parte dei rifiuti cittadini consista di torsoli e foglie di cavolfiori, broccoli, carciofi, verze, insalate e aglio, e sono rifiuti straordinariamente ricercati. I due grossi canestri flessibili che gli asini portano appesi al dorso vengono non solo inzeppati fino all’orlo, ma su ciascuno d’essi viene eretto con perizia un cumulo imponente. Nessun orto può fare a meno dell’asino. Per tutto il giorno un servo, un garzone, a volte il padrone stesso vanno e vengono senza tregua dalla città, che ad ogni ora costituisce una miniera preziosa. E con quanta cura raccattano lo sterco di cavalli e di muli! A malincuore abbandonano le strade quando si fa buio, e i ricchi che a mezzanotte escono dall’Opera certo non pensano che già prima dello spuntar dell’alba qualcuno si metterà a inseguire diligentemente le tracce dei loro cavalli.

A quanto m’hanno assicurato, se due o tre di questi uomini, di comune accordo, comprano un asino e affittano da un medio possidente un palmo di terra in cui piantar cavoli, in breve tempo, lavorando sodo in questo clima propizio dove la vegetazione cresce inarrestabile, riescono a sviluppare considerevolmente la loro attività.” ……

questo decreto legge di Ferdinando II di Borbone dove la raccolta differenziata era inserita nel decreto lo stesso fu copiato da Mussolini COME SI EVINCE DAL VIDEO

http://youtu.be/ZSrrxBhiHnA

Un documento della nuova temperie socio‐politica è la Spaziergang nach
Syrakus (Passeggiata a Siracusa) dello scrittore tedesco Johann Gottfried Seume,
resoconto pubblicato nel ’12 di un viaggio compiuto nel 1801, che rappresenta – potrebbe dirsi – il necessario complemento del libro goethiano. Il Seumemostra tiepida simpatia perla rivoluzione francese e accesa ripugnanza perle

classi dirigenti italiane, soprattutto clericali, come nelle parole pronunciate a
Roma,  sulla via del ritorno a  casa: “Si dica pure  che l’Italia è un paradiso
abitato da diavoli!  Ciò  significa  schernire  la  natura  umana”;  mentre  a  lui
appare  chiaro  che  le  responsabilità  del  degrado  sono  da  attribuire  ai
governanti.  E  in  Sicilia  non  si  darà  pace  nel  constatare  il  contrasto tra  le
ricchezze naturali dell’isola e la fame cronica della popolazione………….

 

lo scrittore tedesco si situa in
zona di confine, dalla quale coglie analogie, differenze, mutamenti culturali.
Come in quella pagina in cui descrive una disputa tra dotti dell’Accademia
Olimpica di Vicenza su un tipico tema ancièn régime, “se sia più utile alle
belle  arti  l’invenzione  o  l’imitazione”:  “Gli  ascoltatori  gridavano  ‘bravo’,
battevano le mani e ridevano. Potessimo anche noi parlare  così davanti ai
nostri compatrioti e dilettarli! Noi invece non facciamo che mettere il nero su
bianco dando in ciò il meglio di noi, ognuno si rannicchia in un angolo, col
suo libro, e ne trae quello che può”.

in poche parole l’Italia ma soprattutto il Regno delle due Sicilie era avanti anni luce con il Progresso si e’ Regrediti come mai?

 

ITALIANIIIIIII!

Quando si svegliera’ il Popolo Italiano ,quando finira’ di farsi prendere in giro da Affubolatori Professionisti ,non c’e’ limite alla Vergogna ,come si fa’ a credere ad Uno che non ha mai lavorato ma ha solo cambiato stanze, consiglio comunale poi Presidente della Provincia per continuare come Sindaco di Firenze e per approdare prima alla Segreteria del PD e finire alla Presidenza del Consiglio senza colpo ferire ,sorvolo sul fatto Improprio di Eleggibilita’ dello Stesso ma come puo’ un Simile Personaggio ergersi a Rottamatore della CASTA quando lui la Rappresenta. Come si puo’ dar peso e credito ad una Persona di tale livello che ha Resuscitato sia il Caimano che D’Alema suoi Acerrimi Nemici prima di arrivare dove si trova oggi …il filmato comparativo tra Lui e Cettola Qualunque fa’ Onore a Cettola per coerenza ma se non fosse che la disperazione e’ Altissima ci sarebbe da ridere…ITALIANI riprendiamoci la Nostra Democrazia ,Ridiamo l’Onore che Meritano ai Nostri Avi che hanno dato la Vita per la Democrazia ,non e’ piu’ Tollerabile una situazione simile .Come si puo’  Credibile un Presidente del Consiglio ,non eletto,Demagogo, che garantisce una riforma al mese ,fregandosene di tutti ,sindacati,confederazioni imprenditoriali e commerciali ma demagogicamente appellandosi al popolo Italiano,non e’ forse che queste organizzazioni e i partiti avversi a Lui RAPPRESENTINO il Popolo Italiano? per concludere come lo chiamate Voi un Politico che si siede sulla Poltrona della  Presidenza del Consiglio senza elezione ma rappresentante di un partito politico che non ha sicuramente la maggioranza ?

Fra’ Diavolo

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